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Nella torrida giornata di sabato 4 settembre 1943, alle ore 16:20, fummo bombardati da quattro caccia – bombardieri americani.
Poi, nei nove mesi seguenti se ne aggiunsero altri 32, dei quali quattro cinque navali.
L’ultimo fu quello tedesco nella notte tra il 24-25 maggio del 1944.
Questi a differenza degli americani usarono bombe di maggiore potenza provocando altre morti fra quella parte della popolazione che incautamente si era affrettata a rientrare in città credendo fosse ormai finito tutto.
Quel giorno avevo promesso a mio fratello di condurlo al cinema Fontana ove proiettavano “Un pilota ritorna”, con Roberto Villa, e intanto l’avevo comandato a comprare i chiodi.
Steso sul lettino, rivestito delle sole leggere mutandine estive, leggevo “Il re della foresta”, un romanzo umoristico di E. Wallace.
Suonarono le sirene dell’allarme.
Mia madre entrò in camera, aprì la cassa militare di mio nonno, ove custodivano i documenti e i preziosi di famiglia, preso il portafogli e la scatola dell’oro e se li ripose in seno.
Con un dito infilato tra le pagine come segnalibro, mi misi a sfotterla bonariamente.
Ma va là! Che paura hai? Ma ti pare che vengono a bombardare proprio a noi? A quale scopo? Che ci guadagnano?
Non sapevo che gli Alleati si stavano preparando a sbarcare a Salerno e, allora, non sapevo neanche che interrompere l’Appia a Terracina significava tagliare l’Italia in due sul versante tirrenico e sbloccare, così, l’invio di rinforzi verso il golfo di Salerno.
Neanche finii di parlare che ci giunse un grido terrorizzato di una donna: le bombe!
E si scatenò il finimondo.
Saltai dal letto e con mia madre urlante, ci precipitammo per le scale a raggiungere le grotte dietro il fabbricato.
Le porte sbattevano violentemente e lo spostamento d’aria ci scaraventava di brutto contro le mura e la ringhiera.
Nelle grotte mia madre urlava la sua pena per mio fratello.
Mi avviai di corsa e lo incontrai sul portone. Era stato sorpreso dalla prima bomba in Piazza.
Aveva pedalato alla disperata per il Corso e a Piazza San Giovanni lo spostamento d’aria lo aveva scaraventato a terra, dopo di che se l’era fatta di corsa a piedi fino a casa.
Poi, di colpo, così com’era cominciato, tutto finì e pian piano iniziammo a riprenderci.
Ci ritrovammo: mia madre con il vestito mezzo strappato, mio fratello senza camicia e zoccoli, una ragazza della mia età che abitava al piano di sotto e che stava riposando nelle mie stesse condizioni semi adamitiche, si ritrovò con il reggiseno e senza mutandine.
Io stesso mi ritrovai nudo e fra le mani rattrappite stringevo ancora il libro con in mezzo il dito.
Lo spostamento d’aria ci aveva strappato i leggeri indumenti che indossavamo.
L’aria era una coltre di fumo e di polvere. Il lezzo di cordite era dappertutto e prendeva alla gola e agli occhi. Cominciarono a giungerci urla e pianti. Rivestitomi alla meglio corsi verso le abitazioni dei miei zii. Mancava mia cugina Bianca che stava da un’amica alle Capanne. Feci a tuffo le scalette e in fondo la incontrai.
Rassicurato, mi guardai intorno. Macerie di fabbricati sventrati, persone morte gettate come stracci sulla strada ed i marciapiedi.
Un cavallo sventrato. Un carretto a pezzi e grappoli d’uva sparsi ovunque. Un soldato mi chiamò per farsi aiutare. Caricammo sull’automobile del colonnello comandante la piazza, un uomo rantolante, con la gola squarciata, il ventre quasi aperto e una gamba spezzata.
A S. Francesco trovammo la strada interrotta e lo scaricammo a Santa Domitilla dove, ci aveva detto l’arciprete don Valentino Bianchi, c’era un medico che sotto Suste (che serviva da rifugio) stava curando dei feriti.
Il dottor Aldo De Simone non potè far altro che constatarne la morte.
I tratti del volto si distesero e riconobbi Orlando Mauti. Mi avviai verso la Piazza e diedi una mano a scavare fra le macerie della casa ove oggi è l’Arco detto di Giano Bifronte, e assistetti a un miracolo.
Fra due grosse travi di legno spaziate fra loro di un 60/70 centimetri e ricoperte a capanna da un tavellone, c’era un bimbo di pochi giorni che senza un graffio dormiva saporitamente e che riconsegnammo alla giovane e disperata madre.
Chi era? Non l’ho mai saputo, Ancora oggi è un’ombra confusa che non riesco a focalizzare. Poi andai giù la Marina. Perché questo girovagare, vi chiederete. Non lo so. Ci muovevamo come in trance.
Macerie e ancora macerie. Una buca su Via Roma. Una mano sui fili della luce, dissero che fosse di Arturo De Simone morto nella crollata macelleria di Via del Rio.
Alfredo Bonsignore in pigiama, con un pacco di biglietti da mille in mano, che supplicava i passanti perché lo aiutassero a tirar fuori dalle macerie la moglie e la figlia, il che era assolutamente impossibile.
Erano sotto la torre completamente crollata che sarà poi ricostruita solo parzialmente.
Una rudimentale barella trasportava fuori vicolo Angeletti il cadavere di Genesia Coccia in Parisella.
E l’ululato delle ambulanze; e il suono lacerante dei claxon a tavoletta dei camion militari che trasportavano i feriti verso gli ospedali di Fondi, Latina e Priverno, perché il nostro era insufficiente a contenerli tutti.
E le luttuose notizie si propagavano, si rincorrevano, si accavallavano.
Pesce è rimasto solo: la famiglia, otto-dieci persone, finita … la casa di Seidita alle Casarelle … alle grotte di Villa Montani, una carneficina.
Flash di una nuova tragedia. Il sole non brillava più. La sua luce gelava.
Poi, di nuovo a casa. Con mio nonno, tornato precipitosamente dalla Valle da dove aveva assistito alla mattanza, caricammo il carretto di zio Vittorino e ci trasferimmo alla vigna, in una casetta di due stanze intonacate e pavimentate. Mentre seguendo la fiumana che invadeva la Valle, mi avviavo a raggiungerli all’altezza del “fontanile dei vaccari” (bivio tra la Neve e Via Salissano) inorridii a sentire Toto Pernarella che inveiva contro il Re Vittorio Emanuele Terzo.
Gli affibbiava tali e tanti aggettivi tra i quali il più caritatevole era quello di mascalzone. Inorridii perché vent’anni d’imbonimento monarchico e fascista mi faceva ritenere eretico un tale linguaggio.
Ed ebbero inizio, così, i mesi bui: il lungo, doloroso, calvario dello sfollamento.
Oggi che tanti ricordi sono sfumati, tante sensazioni sbiadite, vivo è rimasto il ricordo della grande solidarietà che in quel giorno ci unì.
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