La Festa della Liberazione, quest’anno, è stata preceduta da discussioni e polemiche in occasione della ricorrenza dell’Eccidio delle Fosse ardeatine, il 24 marzo scorso, del quale anche “In Terris” ha ricostruito le complesse dinamiche. Se la seconda carica dello Stato, Ignazio La Russa, ha scambiato i giovani soldati del Battaglione Bozen che sfilavano per via Rasella, per anziani componenti di una banda musicale, uccisi dai partigiani romani, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, pur definendo l’eccidio delle Fosse Ardeatine “una delle ferite più profonde e dolorose inferte alla nostra comunità nazionale”, ha parlato di “335 italiani innocenti massacrati solo perché italiani”. Ha omesso, o forse ignorava, che tra le vittime ci furono 9 stranieri. Come da esplicita e pubblicizzata dichiarazione tedesca, furono trucidati in quanto “comunisti badogliani”, termine dispregiativo con il quale si catalogavano gli antifascisti tutti. Per il vero, poi, delle 335 vittime ben 75 erano ebrei e 42 militari delle diverse armi.
Non vale neppure il ricorso alla logica della rappresaglia in tempo di guerra, in un paese nemico occupato, perché la città di Roma faceva parte della mussoliniana Repubblica Sociale Italiana, alleata della Germania nazista. E sono state proprio le autorità italiane, il questore Pietro Caruso in testa, a compilare la lista dei condannati. Paradosso ulteriore: italiani giuridicamente erano anche i giovani del Battaglione Bozen, appartenente alla “Ordnungspolizei”, creata in Alto Adige, dopo la sua occupazione e illegale annessione alla Germania, nell’autunno del 1943, così come le province del confine orientale.
Vale la pena, allora, ricostruire preliminarmente come il 25 aprile è divenuto festa nazionale. Con la legge 260, “disposizioni in materia di ricorrenza festiva” del 27 maggio 1947, si stabiliva che oltre le domeniche, dovevano essere considerati giorni festivi (ben 15), oltre le più importanti ricorrenze religiose, anche il 25 aprile, “anniversario della liberazione”, il 1° maggio, “festa del lavoro”, il 2 giugno, “festa nazionale”, e il 4 novembre, “giorno dell’unità nazionale”. Si stabiliva anche che erano “considerate solennità civili, agli effetti dell’orario ridotto negli uffici pubblici e dell’imbandieramento dei pubblici edifici” l’11 febbraio, “anniversario della stipulazione del Trattato e del Concordato con la santa Sede” e il 28 settembre, “anniversario dell’insurrezione popolare di Napoli”.
Per il vero già il 22 aprile del 1946 a un anno quasi esatto dall’entrata vittoriosa e festante delle brigate partigiane a Milano, il governo presieduto da Alcide De Gasperi, con un decreto firmato dal Luogotenente del Regno, Umberto di Savoia, stabilisce che “a celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile è dichiarato festa nazionale”.
È significativo che anche dopo la le dimissioni del presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, il 12 maggio del 1947, che portò alla fine del governo di unità nazionale e all’estromissione dalla maggioranza fine dei governi di unità nazionale e l’estromissione dei socialisti e comunisti dal governo, la ricorrenza del 25 aprile è confermata solennemente come “festa nazionale” assieme al 2 giugno, giorno della vittoria della Repubblica nel referendum istituzionale del 1946.
Il 25 aprile è divenuto, dunque nel tempo, giorno di vacanza a scuola, di astensione dal lavoro, di cerimonie celebrative ufficiali e anche d’incontri e manifestazioni popolari, esaltate dalla prossimità temporale e tematica con le ricorrenze del Primo Maggio e della festa della Repubblica. Si ricorda e si riflette in primo luogo sulla fine in Italia di una guerra lunga e sanguinosa, per la prima volta nella storia, totale, mondiale, che provoca ben 50 milioni di vittime, delle quali oltre la metà civili, oltre che immani distruzioni d’infrastrutture e abitazioni civili.
Una guerra che si configura come scontro politico militare e ideale, con un nuovo ricorso massiccio alla propaganda che sfrutta anche le straordinarie capacità suggestive del cinema, che vede contrapposti l’universo degli Stati democratici parlamentari assieme all’Unione Sovietica contro la Germani nazista, l’Italia fascista e il Giappone, compartecipi del terrificante progetto di un “ordine nuovo”, europeo e mondiale, fondato sull’asservimento di popoli ritenuti inferiori, come gli Slavi in Europa e i Cinesi in Asia, sullo sterminio di minoranze come egli Ebrei e dei Rom e Sinti e, in generale su modelli di Stati ostili e sprezzanti nei confronti delle istituzioni parlamentari e dei diritti delle persone e delle comunità.
La festa del 25 aprile ricorda in Italia, quindi, la finale liberazione dagli occupanti tedeschi e dai loro subalterni collaboratori della mussoliniana Repubblica sociale, dispregiativamente denominati “repubblichini”, che nel rigidissimo inverno del 1944-45 avevano inasprito la repressione della Resistenza armata e della società civile nelle regioni del Centro nord. In questo senso il 25 aprile è da considerarsi, ancor più del 2 giugno, come la data fondante della nuova Italia democratica.
Eppure il 25 aprile non è mai pienamente divenuto festa civile nazionalpopolare sul modello, per fare degli esempi comparativi, del 14 luglio in Francia, per ricordare la presa della Bastiglia, del Giorno del ringraziamento negli Stati Uniti, il quarto giovedì di novembre, per ricordare lo sbarco dei Padri pellegrini o, anche, del Giorno della vittoria della Grande guerra patriottica, il 9 maggio 1945, nell’Unione Sovietica fino al 1991 e della Federazione Russa successivamente.
Per il vero nella storia d’Italia unita diverse altre ricorrenze, in momenti diversi istituite come feste nazionali, non sono riuscite ad assurgere a questo ruolo: non il giorno della proclamazione del Regno d’Italia, 5 maggio 1861, non la presa di Porta Pia, 20 settembre 1870, non la vittoria della Prima guerra mondiale, 4 novembre 1918, né tantomeno la Marcia su Roma, 28 ottobre1922 o la firma dei Patti Lateranensi, 11 febbraio 1929.
Un dato di fondo della storia del nostro paese è stato sempre, infatti, la limitata maturazione di una identità nazionale diffusa e interiorizzata: il “paese reale”, per usare un’espressione pregnante del cattolicesimo intransigente ottocentesco, coniata da padre Carlo Maria Curci della Civiltà Cattolica, rimane separato e diffidente, talvolta addirittura ostile nei confronti del “paese reale”. In decenni a noi più vicini, Pier Paolo Pasolini, del quale quest’anno celebriamo il centenario della nascita, ha inventato la fortunata metafora del “palazzo”, lontano dagli interessi e dai bisogni della gente per constatare il perdurare del fenomeno.
Eppure la Resistenza, la cui moralità è non compromessa ma esaltata, qualora la si rivisiti non retoricamente come “Secondo Risorgimento”, bensì, partendo dal vissuto degli Italiani, come un complesso precipitato di guerra nazionale di liberazione, lotta di classe e anche penosa guerra civile, è la stagione storica nella quale forte e sentita è stata la partecipazione alla vita politica del nostro paese e anche la convinzione di poter contare e decidere.
La Resistenza, secondo i più documentati e maturi studi – primo fra tutti la magistrale volume, del 2006, di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, non si esaurisce nella lotta armata, nella quale, in ogni caso si era sempre rigorosamente attenti a evitare il coinvolgimento della popolazione civile in feroci rappresaglie; riguarda anche la “resilienza” popolare – le donne in primo luogo – che accompagna e sostiene i partigiani combattenti: Arrigo Boldrini, il geniale inventore della lotta partigiana in pianura, ha calcolato che ogni partigiano in armi necessitava del sostegno attivo e non privo di rischi, di almeno cinque civili. Ancor più, nelle campagne come nelle citta, di fronte alle devastazioni, alle rappresaglie, alle ripetute stragi e, soprattutto, alle penose, perduranti condizioni di scarsi approvvigionamenti alimentari e di interruzione dei servizi essenziali, la resilienza popolare permette di conservare e anche estendere creative forme diffuse di solidarietà, evitando la caduta in spirali di cannibalismo sociale.
Il modo più corretto e proficuo di ricordare e dare valore attuale al 25 aprile, che comportò la liberazione per tutti compresi i fascisti, è quello di riviverlo come fondamento di una storia comune che non annulla i contrasti ma neppure interpella continuamente una storia giustiziera, che possa insomma servire a costruire un nuovo più maturo e moderno lessico civile.
Nel tempo presente, infine, della perdurante terribile guerra nel cuore dell’Europa, nella martoriata Ucraina, di fronte alla martellante campagna dei media che solleticano pericolose pulsioni belliciste, occorre ricordare che, in Italia, in Europa e in Asia, nella Resistenza contro il Nazifascismo e il feroce militarismo giapponese, milioni di civili furono costretti a impugnare le armi per porre fine a regimi oppressivi e inumani e, sulle loro rovine, costruire un mondo di giustizia e di pace per “salvare le future generazioni dal flagello della guerra” come recita la Carta delle nazioni Unite. Nel nostro paese, in particolare, la riflessione comune sulla tragica esperienza vissuta spinse i padri e le madri costituenti a sancire solennemente nell’articolo 11 della Costituzione che “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
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