“E’ il 23 maggio 1992 quando, lungo l’autostrada che da Trapani porta a Palermo, la mafia uccide il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani con una carica di cinque quintali di tritolo. Un attentato efferato e vile che scuote il paese e s’imprime nella memoria collettiva, travolta appena due mesi più tardi dal ripetersi di quel tragico copione in via D’Amelio, quando a perdere la vita sono il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. Per anni la rabbia e l’indignazione per il sangue sparso dalla mafia erano durate soltanto il tempo dei funerali. Dopo la Strage di Capaci, invece, qualcosa cambia. Nel Paese, soprattutto a Palermo. La rabbia diventa pretesa di giustizia, il lutto necessità di testimonianza. Nessuno può più rimanere indifferente. Né le istituzioni, né i cittadini. È l’inizio di quella metamorfosi culturale, morale e delle coscienze che Giovanni Falcone riteneva indispensabile per poter combattere la mafia su larga scala”. Così si legge nel libro, “L’eredità di un giudice. Trent’anni in nome di mio fratello Giovanni”, pubblicato, lo scorso anno per Mondadori, da Maria Falcone e Lara Sirignano.
Quanto mai meritorie ed efficaci sono state, in tal senso, le iniziative promosse dalla Fondazione Falcone, che si propone, attraverso attività di studio e di ricerca e interventi nel sociale, soprattutto nelle scuole, di formare ai valori della legalità, mantenendo sempre viva nelle giovani generazioni la memoria di quanti per la sua affermazione hanno sacrificato la propria vita. A partire da Giovanni Falcone e da Paolo Borsellino, suo amico e collega, che condivise con lui non solo l’intelligenza investigativa e il rigore giudiziario, ma anche il destino crudele della morte nella successiva strage di Via D’Amelio, due mesi dopo, nella quale periscono anche ben cinque agenti della scorta, compresa Emanuela Loi, la prima donna a essere uccisa in servizio dalla mafia.
Lo storico francese Pierre Nora, nel libro «Histoite et mémoire» ha scritto che meno la storia è vissuta collettivamente più essa ha bisogno di «uomini-memoria». E tali indubbiamente sono stati Falcone, Borsellino, Alberto dalla Chiesa e, prima ancora, Pio La Torre e Piersanti Mattarella e, nel lontano 1948, il sindacalista di base, Placido Rizzotto. Impegnati tutti non solo a denunciare le attività criminose della mafia ma anche a diffondere e far maturare nella coscienza popolare e nelle stesse istituzioni la necessità della sua estirpazione, per rendere possibile il progresso civile e lo stesso sviluppo economico.
Uno dei suoi studiosi più seri della storia e della natura del fenomeno mafioso, Salvatore Lupo, sostiene che la mafia fa affari, ma non è una semplice congrega di affaristi; organizza traffici, variegati, compresi quelli delle droghe, ma non è una banda di trafficanti; interloquisce e tratta con i politici e, talvolta anche con apparati dello Stato con infiltrazioni e connivenze, ma non è un partito politico. È una struttura criminale che aspira a modellarsi sullo Stato prendendone in appalto le funzioni fondamentali, dal monopolio della violenza al controllo territoriale.
Il maxiprocesso di Palermo organizzato nell’aula bunker del tribunale, dal febbraio del 1986 al dicembre del 1987, che costò la vita a Falcone, servì proprio a disvelare anche alla pubblica opinione le “Cose di Cosa nostra”, come dal titolo di un bel libro di conversazioni tra lui e la giornalista Marcelle Padovani, moglie di Bruno Trentin, pubblicato nel 1991.
Dopo una mastodontica ma rigorosa istruttoria, condotta da Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, furono rinviati a giudizio ben 474 imputati. A seguito del processo più grande della storia giudiziaria italiana, furono comminate 360 condanne in primo grado per 2665 anni di reclusione. L’impianto accusatorio trovò, dopo alcuni anni, sostanziale conferma in cassazione.
La novità non solo processuale è costituita dal fatto che per la prima imputazione è costituita dal reato, codificato – oggi sembra incredibile – solo due anni prima, di appartenenza all’organizzazione mafiosa. È sufficiente, al riguardo, ricordare che persino il cardinale lombardo Ernesto Ruffini, a lungo arcivescovo di Palermo, nonostante sollecitazioni pervenute non solo da Danilo Dolci, ma dalla stessa Segreteria di Stato, usasse abitualmente l’espressione “cosiddetta mafia”, negandone o minimizzandone, in ogni caso, sempre la forza e la penetrazione nella vita economica e sociale e, ancor più, le sue collusioni con gli ambienti politici.
Ritorna alla memoria, per fortuna, il grido di Giovanni paolo II, in visita alla Valle dei Templi di Agrigento, il 9 maggio 1983: “Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Nel nome di Cristo, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!”
E la mafia ritenne che fosse un’offesa da vendicare: due autobombe, cariche di tritolo a Roma, una davanti alla Basilica di San Giovanni in Laterano, la basilica del vescovo di Roma e l’altra davanti a san Giorgio al Velabro che arrecano gravi danni e feriscono 22 persone; assassinio di don Pino Puglisi, sacerdote palermitano conosciuto e stimato per il suo impegno evangelico e sociale.
Una densa frase di Giovanni Falcone recita: “Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”. “Per un futuro senza mafie”, come dal sottotitolo della denominazione della fondazione che porta il suo nome e che ne conserva la memoria e la lezione.
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