Loro, i naufraghi, sono morti, certo, ma siamo noi che abbiamo perso definitivamente la nostra essenza. Loro hanno perso la loro esistenza individuale. Noi perdiamo la nostra essenza collettiva perché il rifiuto dell’altro resta iscritto, indelebile, nella nostra storia ormai irreversibile. E non la possiamo mai più riscattare.
La morale individuale può perdonare, ma l’etica politica è senza perdono; perché, come scrisse una volta Luigi Firpo, il passato è sempre “concreto e vero, né più né meno del nostro presente, solo spostato all’indietro nella curva della nostra vita, dietro l’angolo appena svoltato nel tempo incancellabile perché fu”.
Difendersi ora, in qualche modo, è goffo.
In ogni dimensione della politica, ciò che è stato ci cade inevitabilmente addosso, è un peso che non potremo mai più scaricare. Anche se non siamo noi colpevoli di ciò che è avvenuto, quel peso è comunque anche nostro.
Vorrei ripetere a tutti coloro che scelgono, di fronte ai drammi della storia, la volgarità di una convenienza personale piuttosto che la responsabilità di una esigenza collettiva, che proprio in questo momento noi compiamo, ora, qui, adesso, quando decidiamo chi giudicare e con chi stare, noi diventiamo colpevoli: “e irrimediabilmente perché solo possiamo riscattare ciò che siamo in questo istante, ma non ciò che fummo”.
Ciò che siamo ora, non più ciò che siamo stati, e ciò che saremo. Per questo la battuta acida di un qualsiasi ministro è nauseante, non perché giudica ciò che è avvenuto, ma perché dimostra ciò che è ora e ciò che sarà domani.
Quando Antonio espose nel foro romano la testa mozzata di Cicerone con la lingua evirata, non mostrò la drammatica sconfitta di Cicerone, ma la crudeltà acerrima nell’animo di Antonio.
Alessandro Ceci
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