“La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale Giorno del ricordo al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli Istriani, Fiumani e Dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale. Nella giornata di cui al comma 1 sono previste iniziative per diffondere la conoscenza dei tragici eventi presso i giovani delle scuole di ogni ordine e grado. È altresì favorita, da parte di istituzioni ed enti, la realizzazione di studi, convegni, incontri e dibattiti in modo da conservare la memoria di quelle vicende. Tali iniziative sono, inoltre, volte a valorizzare il patrimonio culturale, storico, letterario e artistico degli italiani dell’Istria, di Fiume e delle coste dalmate, in particolare ponendo in rilievo il contributo degli stessi, negli anni trascorsi e quelli presenti, allo sviluppo sociale e culturale del territorio della costa nord-orientale adriatica e altresì a preservare le tradizioni delle comunità istriano-dalmate residenti nel territorio nazionale e all’estero” (Articolo 1, Legge 92 del 30 marzo 2004).
La persecuzione e l’eliminazione fisica di alcune migliaia di Italiani, precipitati, nei casi più tristemente noti, in profonde cavità naturali nei terreni carsici, chiamate foibe (quella di Basovizza a Trieste è stata dichiarata monumento nazionale) e l’esodo forzato di circa 300 mila persone, la maggior parte della popolazione italiana dall’Istria, Fiume e Dalmazia è uno dei momenti più drammatici e tormentati della storia contemporanea del nostro Paese. E si trattò di 300 mila Italiani. “Italiani per nascita e Italiani per scelta”, come si arguisce dal titolo del bel libro di Dino Messina, Italiani due volte. Dalle foibe all’esodo; una ferita aperta della storia italiana (Solferino, 2019).
La memoria è un documento imprescindibile per ricostruire il passato ma è anche molto fragile e deve diventare un dovere civico, anche perché, come tante persone che hanno vissuto storie tragiche, a livello individuale possono scattare i meccanismi dell’oblio o della rimozione. Ai fini della sua conservazione sono d’indubbia importanza i libri di storie vissute e, soprattutto per la formazione degli studenti, le visite guidate nei musei che nel tempo sono stati creati da comunità di profughi istriani-giuliano-dalmati.
In primo luogo a Trieste, nel Porto Vecchio, all’interno del Civico Museo della Civiltà Istriana Fiumana e Dalmata, la raccolta degli oggetti quotidiani che gli esuli portarono via dalle proprie case, e la galleria dei volti senza nome che rinvia, come un drammatico memoriale a quell’umanità abbandonata al proprio destino. Sull’esempio triestino sono sorti altri piccoli archivi-musei: è il caso dell’Archivio museo storico di Fiume a Roma, collocato nel quartiere denominato Giuliano-Dalmata, dove nel dopoguerra trovò rifugio una numerosa comunità di profughi che furono ospitati nelle baracche destinate ai lavoratori impegnati nella costruzione dei monumentali edifici dell’EUR, che dovevano ospitare l’Esposizione Universale Roma per il ventennale della marcia su Roma, che non si svolse per l’inizio della guerra. Contiene anche una ricca biblioteca e promuove pubblicazioni e iniziative per l’intera cittadinanza, il suo direttore, Marino Micich, figlio di esuli dalmati, studioso e animatore culturale, è anche coautore del pregevole recente volume, Foibe, esodo, memoria. Il lungo dramma dell’italianità nelle terre dell’Adriatico orientale (Aracne, 2023).
Merita di essere menzionato anche l’Ecomuseo Egea di Fertilia, vicino ad Alghero, dedicato anch’esso alla memoria dell’esodo dei Giuliano-Dalmati, che trovò ospitalità e anche una rara buona accoglienza nel borgo agricolo sorto a seguito della bonifica attuata negli anni del Regime. Il museo è intitolato a Egea Haffner Tomazzoni, la Bimba con la valigia, ritratta nella famosa fotografia, diventata quasi un’icona della tragica storia di quell’esodo.
L’istituzione del giorno del ricordo ha costituito, dunque, un doveroso e tardivo riconoscimento delle sofferenze subite da un numero considerevole di nostri concittadini, consentendo il salvataggio di una memoria che stava sparendo, quella degli Italiani dell’Istria, di Fiume e di Zara. Ha permesso inoltre, come ha giustamente sottolineato Raoul Pupo, nel recente libro, Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza (Laterza 2021) la reintegrazione nella storia nazionale di quella componente adriatica, che ha un retroterra importante. Anche il fatto che la legge istitutiva sia stata votata quasi all’unanimità è positivo, perché ha sottratto la tragedia istriano-dalmata a un uso di parte.
Nella storiografia più recente, che ha potuto avvalersi della documentazione archivistica non solo italiana, ma anche croata e slovena, libera da pregiudizi ideologici, gli eventi drammatici intervenuti al confine orientale tra il 1943 e il 1946/47 non sono spiegabili semplicemente come odio slavo-comunista verso gli italiani o gli italofoni, né come mera reazione verso le atrocità commesse in terra jugoslava dall’Italia monarchico-fascista con l’aggressione militare in alleanza con la Germania nazista nel 1941, preceduta dalle politiche di snazionalizzazione nei confronti delle minoranze slavofone dal 1922 in poi.
Agli italiani che erano espulsi e intimiditi, in alcuni casi si aggiunsero non italiani che profittarono dell’occasione per scappare dalla Jugoslavia comunista di cui non tutti erano entusiasti, nonostante l’epopea della lotta partigiana contro l’occupazione tedesca e italiana. D’altronde nelle zone di confine il bilinguismo è diffuso e non era facile distinguere, ad esempio un croato bilingue da un italiano.
Per quanto riguarda le tristi vicende dell’esodo – gli esuli che s’imbarcavano, ricevevano il “certificato di profugo”, che dava diritto nell’Italia di allora distrutta dalla guerra, a ricevere 30.000 lire a capofamiglia, più 2.000 lire per ogni altro componente, oltre a un posto in cui dormire e ai buoni pasto.
Nella memoria di molti profughi nei decenni successivi hanno costituito indubbio motivo di sofferenza la non conoscenza della loro tragedia, la diffusa e duratura tendenza anche in ambienti acculturati a negarle o minimizzarle e, ancor più, il disinteresse per le loro storie personali e familiari che sono parte integrante della storia del nostro Paese.
La letteratura ha svolto e può continuare a svolgere una funzione importante per contrastare questo fenomeno. Ad esempio Fulvio Tomizza, che nei suoi libri, tradotti in diverse lingua – tra questi Materada (Mondadori 1960) – ha narrato non solo l’esodo degli Italiani d’Istria, ma anche la vita sofferta delle comunità slave durante il Fascismo ed è significativo che dopo la sua morte il forum a lui intestato organizza un festival di letteratura transfrontaliero che si svolge a Trieste, Capodistria e Umago.
Poi Marisa Madieri che nel suo poetico diario-memoir, Verde acqua (Einaudi, 1987), con una bellissima introduzione di Claudio Magris, divenuto suo marito, racconta, a partire dalla sua vita vissuta, che lei, nata a Fiume nel 1938, era di una famiglia ungherese, il cui cognome era stato prima Madjarić, poi Madierich, e, infine, quando arrivò a lei, Madieri, avendo optato per la cittadinanza italiana: un caso esemplare, ma non raro in quella che fu la Mittel-Europa, della quale l’area adriatica era una propaggine, di complessa identità etnica e culturale.
Merita di essere riportato l’incipit del suo racconto: “19 marzo 1982. Ci sono giorni in cui guardo volentieri indietro, altri in cui il passato si fa opaco, elusivo. Gli interessi contingenti prendono il sopravvento. Poi, d’improvviso, il filo segreto del tempo che tesse la nostra vita rivela la sua tenace continuità. Uno squarcio, un tuffo al cuore. Tutto è ancora presente”.
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