lunedì 25 Novembre 2024,

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Il dialetto, stratificazione cellulare di una comunità

scritto da Redazione
Il dialetto, stratificazione cellulare di una comunità

Il dialetto terracinese nella storia della città è stato per tanti l’unica lingua conosciuta, almeno fino alla grande rivoluzione culturale che portò nelle case degli italiani l’elettrodomestico televisivo e il programma “Non è mai troppo tardi” dell’indimenticato maestro Manzi.

Fu una grande operazione culturale che, di fatto, tentava di superare i tanti dialetti italici per un’unica lingua: l’italiano.

Operazione riuscita ma non vincente su tutta la linea, perché le lingue dialettali italiche continuano a vivere di vita propria.

Anzi, negli ultimi tempi è in atto una vera e propria valorizzazione di queste, come momento riconducibile al sentimento identitario di comunità.

E’ un processo che non possiamo far finta di conoscere, perché anche la Terracina degli ultimi tempi è stata investita da tali “sentimenti” identitari da parte di giovani e meno giovani, che hanno tramutato questo sentire in realtà politica di governo del Paese.

In questa fase interessa, però, la “riscoperta” dialettale sotto i profili umani e sociali della Terracina dei primi anni del ‘900, e lo facciamo  attraverso i ricordi di Genesio Cittarelli, in parte già pubblicati sul periodico “Controcorrente”, del quale ero direttore responsabile.

Quelli che intendiamo far conoscere sono momenti di esistenze umane vissute, istanti caratterizzanti il vivere sociale e popolano nella Terracina che fu, impegnata a uscire dalla preistoria per entrare nella storia moderna.

Percorso che ha condotto le nuove generazioni a essere quelle che sono oggi, con tutte le “contaminazioni” antropologiche intervenute alla struttura genetica autoctona del terracinese o presunto tale.

Everardo Longarini

 

“La mamma de Sughe de Pempedòre e la corrente elettrica”

Quando nel 1900 fu portata la corrente elettrica a Terracina, la madre di Sughe de Pempedòre la fece allacciare alla loro modesta abitazione. Sorprendente per una donna anziana di quei tempi quest’apertura alla novità, quest’accettazione del progresso.

La prima sera, dunque, Sughe de Pempedòre la passo a fissare ostinatamente la lampadina. Quando fu l’ora di andare a letto e la madre gli disse:

  • Aremòre ssa lùcia – Lui, docile e ubbidiente, si alzò e cominciò a soffiarivi su a pieni polmoni.
  • No a sussì – gli disse paziente la madre – Sa palla de lùcia nen ze stuta zuffiènne, ma gerènne la chiavarduccia de chiju rubbenètte che sta appeccecàte a llà, a ju mure!. La vide?

Rimase a guardare cercando di realizzare quanto quella gli aveva detto.

Alfine qualcosa si fece strada fra i ruderi del cervello, si accostò all’interruttore, lo prese e … fece, spaventato un salto indietro.

Aveva messo il dito su una vitarella buscandosi una scarica. Con gli occhi sbarrati, in cui si poteva leggere un misto di sorpresa e doloroso risentimento; mormorò alla madre:

  • Che … te … pòzzene … accide … a te … e … sta puttana! A … llà … dènte … ce stanne … le furmìchele … caperòsce!

 

 

 

 

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