“Dio tocchi il cuore degli uomini e delle donne delle diverse mafie, affinché si fermino, smettano di fare il male, si convertano e cambino vita – ha ammonito papa Francesco -. Il denaro degli affari sporchi e dei delitti mafiosi è denaro insanguinato e produce un potere iniquo”. Ai mafiosi vorrei chiedere quale gioia possa aver arrecato alle loro esistenze l’aver distrutto la vita degli altri, costringendo il prossimo a vivere nella paura e condannando anche i loro familiari al nascondimento, all’ignominia, all’isolamento e alla perenne fuga. Che senso ha avuto tutto questo? Aver massacrato innocenti e atterrito interi territori quale gratificazione può aver arrecato ai responsabili dei clan? Dopo il suo monito a Cassano allo Jonio di otto anni fa, il Pontefice ha chiarito che la mafia, “quale espressione di una cultura di morte, è da osteggiare e da combattere” e “si oppone al Vangelo”. Parole che evocano l’invettiva di San Giovanni Paolo II (“convertitevi verrà il giudizio di Dio”) ad Agrigento trent’anni fa. Quell’accorato monito scaturì dalla visita che Karol Wojtyla, poche ore prima, aveva fatto ai genitori di Rosario Livatino, il magistrato ucciso dalla mafia nel 1990 a soli 37 anni ed elevato agli onori degli altari. E più che mai oggi riecheggia la scomunica pronunciata proprio da Jorge Mario Bergoglio nel suo viaggio in Calabria il 21 giugno 2014.
Papa Francesco insegna che la mafia si oppone radicalmente alla fede e al Vangelo, che sono sempre per la vita, ammonendo che “il fenomeno mafioso, quale espressione di una cultura di morte, è da osteggiare e da combattere”. La società ha bisogno di essere risanata “dalla corruzione, dalle estorsioni, dal traffico illecito di stupefacenti e di armi, dalla tratta di esseri umani, tra cui tanti bambini, ridotti in schiavitù”. Piaghe sociali e, al tempo stesso, sfide globali che la collettività internazionale è chiamata ad affrontare con determinazione. Quella testimoniata da Francesco è una Chiesa aperta, che esce da se stessa, si china sui poveri e sulle vittime di sopraffazione, si spalanca al mondo e all’umanità, sentendosene parte e sapendo di condividere la sua sorte e di avere contratto, in Cristo, un debito di servizio nei suoi confronti. Un afflato che, nello spirito della “Gaudium et Spes”, sollecita la Chiesa a soccorrere gli afflitti e gli oppressi, a sanare le ferite inferte ai più fragili dai Don Rodrigo di ogni epoca.
La legalità come modo attuato dalla Chiesa per aprirsi al mondo: non per perdere la sua identità, ma appunto per trovarla, in quanto essa esiste per la missione. E la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo non è altra cosa rispetto a quella dogmatica sulla Chiesa; ne è invece la naturale prosecuzione e il compimento. Essa indica alla Chiesa la via della solidarietà con il genere umano e della condivisione delle ingiuste tribolazioni dei più fragili al fine di adempiere al mandato di Cristo. La carità, che deve animare la Chiesa al suo interno e la rende sacramento di salvezza, la deve spingere anche verso l’esterno, in modo da trasmettere ciò che ha ricevuto e la costituisce, e assicurandone l’unità negli intenti e nella prassi come hanno dimostrato fino al martirio don Pino Puglisi e di don Peppino Diana, parroco di Casal di Principe che invitava la gente a “risalire sui tetti e annunciare parole di vita”. Sempre dalla parte di chi le mafie cercano di tiranneggiare e umiliare. “Mafiosi e corrotti non possono dirsi cristiani: portano la morte nell’anima e agli altri, hanno il cuore pieno di putredine – avverte papa Francesco-. I mafiosi non sono capaci di cambiare vita anche se continuano a proclamarsi cristiani”. Solo il Vangelo offre la “possibilità di rinnovarsi”.