La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento con l’obiettivo di emancipare, concretamente, le patrie regionali, provinciali e comunali entro la cornice dello Stato nazionale. Una convivenza già prevista dalla Costituzione del 47 -in quell’articolo 5, dove si dice che «la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali»- e che, tuttavia, non è ancora vissuta come paritaria. Un «tradimento» che, allora, dipese dalle ambiguità tipiche d’ogni compromesso, e la Carta firmata nel ’47 fu infatti «un compromesso», sosteneva Calamandrei, ma che il Governo Letta, oggi, riedita ancor più gravemente di allora, disattendendo non solo il principio autonomistico su cui fonda la nostra costituzione, ma disconoscendo quel cambiamento che, dopo 53 anni di attesa, ha rappresentato il più ampio e profondo processo di riforma al quale il Paese si sia mai sottoposto e che ha portato alla modifica del Titolo V della Costituzione, così inserendo una retromarcia che ci riporta indietro di più di 20 anni. Un fantasma si aggira per l’Italia: quello del nuovo statalismo, spinto dal vento della crisi che soffia sulla economia e peggio ancora sulla politica povera di idee, sciatta e qualunquista. A poche ore dalla pronuncia che acclara la imbarazzante mediocrità del processo di riordino delle Province, il Governo Letta, vaticinato dal medesimo artefice della debacle tecnico-amministrativa che ha contraddistinto il primo tentativo, ritenta nuovamente la sorte con un provvedimento tanto improvvido quanto prematuro. Brucia la solenne batosta inflitta dalla Corte Costituzionale e, con il livore di chi freme per una rivincita, si corre a stendere altri pochi articoli di un DDL per cancellare le Province dal novero dell’art.114, per eliminare la politica intermedia che tanto danno si ritiene abbia fatto a questo Paese. Eppure non i presidenti delle Province od i loro consiglieri sono finiti sulle prime pagine dei giornali per scandali, feste, regali e viaggi!!! Ma ormai è chiaro a tutti che non è questo il tema. Il pericolo da scongiurare è che la scure del populismo vada ad intaccare i poteri forti dello Stato, che entri nei ministeri a stanare la pletora dei consulenti a colmare le lacune di chi non sa ma pretende di capire, di assistenti, autisti, portaborse, esperti e professori, le auto blu e le spese di rappresentanza, di privilegi ingiustificati; che si chieda un passo indietro a chi mette in tanto imbarazzo il Governo ed il Parlamento che votò la fiducia verso provvedimenti tanto raffazzonati; che si chieda la riduzione dei numero dei Parlamentari con il loro seguito; che cancelli da subito le poltrone ed il valzer di nomine ad esse legate. E’ più facile prendersela con il Presidenti di Provincia ed i Consiglieri comunali, senza preoccuparsi dei veri temi politici. Lo schema di disegno di legge costituzionale per l’abolizione delle province esaminato dal Consiglio dei Ministri mira ad abolire la parola ‘province’ dalla Costituzione sostiene Letta il quale vaticina un percorso rapido per dare il segno di quanto detto nel discorso programmatico e sul quale ha ottenuto la fiducia in Parlamento, sia ancora un impegno. Ma quel discorso parlava di una riforma di sistema cosi come indicato anche nel dispositivo della Sentenza della Consulta, un percorso complessivo che tracci le linee di un cambiamento dell’organizzazione, non un intervento di alta chirurgia per sedare le masse ed apporre un visto ad un impegno frettolosamente evaso. L’ennesimo tentativo di gettare fumo agli occhi, frettoloso e scomposto. Non è l’articolo 114 l’argine alla abolizione delle Province, ma l’intero impianto della Costituzione dall’articolo 1, 3, 5: fondamentali, ed successivi art.117,118,119,133. Poi resta il nodo dell’esercizio delle funzioni che i Sindaci amministratori onorifici delle Province eserciteranno portandosi dietro tutti i loro localismi a paralizzare ogni attività e programmazione di area vasta lasciando che la tecnocrazia intervenga a sanare i conflitti ed a ricondurre ad unità. Non è questo il governo del territorio ma solo un bieco tentativo di restaurare il centralismo autarchico ai danni oggi delle Province ma che per salvare se stesso dalla insofferenza che aleggia tra la gente non risparmierà di darle in pasto qualche altra vittima sacrificare. La pochezza di questa politica fatta di improvvisati ed improvvisazioni deve essere contrastata con ogni mezzo, il populismo e la demagogia oggi condannano a morte le Province ma non salveranno l’Italia della disoccupazione giovanile, del disagio delle famiglie, degli stenti degli anziani, dell’ondata dei nuovi poveri.
Armando Cusani