Il dibattito sulle pensioni rischia di non finire più e di tenere bloccato un paese che dovrebbe avere ben altre priorità. Comunque, la soluzione trovata dal governo appare efficace (anche se saranno inevitabili altri ricorsi alla Corte costituzionale, che speriamo agisca con maggiore saggezza), e ancora di più se poi si consentirà l’uscita flessibile purché con assegno ridotto. Assegno magari ricalcolato con i criteri contributivi anziché retributivi: in questo caso la libera scelta mettera’ al riparo anche da eventuali ricorsi, che senza la volontarietà sarebbero seguiti da quasi certe altre vittorie. E a proposito di ricalcolo, l’operazione trasparenza promossa dall’Inps è lodevole, ma la politica che la usa e spesso la strumentalizza dimentica alcune cose. La prima è che all’origine del gap tra vecchi e nuovi pensionati non c’è tanto la differenza tra metodo retributivo e contributivo, quanto tra sistema previdenziale a ripartizione (il nostro) ed a capitalizzazione (in vigore in quasi tutti gli altri paesi).
Il motivo è semplice. Il metodo retributivo agisce applicando una serie di parametri, detti “montanti” di rivalutazione, sulle fasce di stipendio percepite nell’attività lavorativa. Questi montanti decrescono con l’aumentare dei livelli di reddito, come in un millefoglie; per cui le pensioni più elevate sono in proporzione meno generose, meno retributive, di quelle medie. Invece il metodo contributivo si applica anziché agli stipendi ai contributi. Ma non è appunto questo a penalizzare i giovani, quanto il sistema a ripartizione: in base al quale sono i lavoratori attivi a pagare le pensioni presenti e future, non gli ex lavoratori con i contributi versati o con i coefficienti sulle retribuzioni. E’ evidente che se diminuisce l’occupazione e diminuiscono i redditi, il sistema diventa insostenibile. Ma se l’operazione di ricalcolo da retributivo a contributivo è teoricamente possibile, anche per le pensioni in corso, il passaggio da sistema a ripartizione ad uno a capitalizzazione è impossibile. E questo perché l’Inps non è un forziere pubblico nel quale sono depositati i contributi previdenziali, non è neppure un gigantesco fondo comune, non è qualcosa tipo la Cassa depositi e prestiti. E’ un ente che da una parte prende e dall’altra da’; e gran parte di ciò che da’ non va alla previdenza ma all’assistenza sotto forma di pensioni di invalidità, di accompagno, di sgravi Isee (tutti capitoli che si potrebbero riesaminare) e soprattutto di cassa integrazione.
Il dibattito di questi giorni poi è viziato da un’altra ambiguità. Si parla molto di pensioni retributive che “ruberebbero” la futura previdenza dei giovani. Ma allora che dire delle pensioni baby? Parliamo del trattamento strepitoso concesso nel 1973 (governo di centrosinistra a guida Dc) alle impiegate pubbliche con figli, che poterono andare in pensione con 14 anni, sei mesi e un giorno di lavoro. Mentre per gli statali era già possibile, e lo è rimasto a lungo, andare in pensione dopo 19 anni e mezzo, e per i dipendenti degli enti locali dopo 25 anni. Fu il governo Amato, nel ’92, a mettere fine allo spasso. Di questi assegni ne vengono erogati tuttora oltre 500 mila, soprattutto al Nord, con un costo per lo Stato di 10 miliardi l’anno. Egualmente i vari esecutivi aprirono i cordoni per settori in ristrutturazione: gli elettrici, i bancari, i ferrovieri, i dipendenti Alitalia. Benefici dei quali le aziende pubbliche e private approfittarono a piene mani per massicce ristrutturazioni – dalle banche alle Poste – e il cui costo è oggi stimato in oltre 12 miliardi. Poi ci sono le pensioni che vengono pagate a chi non ha versato quasi nulla: agricoltori, lavoratori autonomi, commercianti. E non tutti sono poveri Cristi. Infine i contributi “figurativi” concessi per il riscatto della laurea e del servizio militare. E, a proposito di militari, non andrebbero dimenticati i calcoli molto favorevoli per il pensionamento del personale con le stellette, non tutto addetto a lavori usuranti o disagiati. Ovviamente restano i vitalizi degli onorevoli, parlamentari nazionali e consiglieri locali. Ricalcoliamo tutto? Togliamo l’assegno ai baby e alle baby pensionate? Può essere accettabile il contributo di solidarietà per le pensioni elevate, basta che non vada a finire nel calderone della spesa pubblica. Ma se si parla di pensioni “rubate“, sarebbe logico puntare lo sguardo altrove