La prevenzione del dissesto idrogeologico è un tema scomodo: non porta voti, implica risorse economiche da reperire e una visione di lungo periodo. Tuttavia in Italia conosciamo molto bene il prezzo dell’incuria del territorio: lo abbiamo appena pagato in Emilia Romagna con 15 vittime, migliaia di sfollati e danni che si misurano in miliardi di euro. Nel settembre del 2022 furono le Marche a vivere un’esperienza analoga. A chi toccherà la prossima volta?
Anzitutto bisogna fare una premessa: il cambiamento climatico, che è sotto i nostri occhi e sta già avvenendo, è la causa scatenante di queste tragedie ma non deve diventare un alibi. Oggi sappiamo che in poche ore, territori più o meno ampi possono ricevere quantità di pioggia che normalmente avrebbero in un anno intero. Ma questo non significa che le tragedie siano inevitabili, che la cura del territorio sia inutile. Anzi: proprio perché il clima ci sta ponendo sfide di questa portata, la nostra risposta dev’essere all’altezza.
Ogni territorio è diverso, ma il ventaglio degli interventi necessari è ben noto agli addetti ai lavori, geologi in primis, mai troppo ascoltati anche perché poco presenti all’interno delle amministrazioni locali, e anche su questo le cose devono cambiare. Se vogliamo mitigare il rischio idrogeologico la manutenzione dei fiumi è imprescindibile. Bisogna agire subito e sappiamo cosa va fatto: pulire gli alvei perché l’acqua possa scorrere in modo ottimale; realizzare delle casse di espansione dove far defluire il fiume quando è in piena, creare laghi artificiali in collina, che peraltro risulterebbero risorse preziose cui attingere durante i periodi siccitosi. Questi interventi, però, non devono essere isolati. Non ha senso pulire l’alveo di un fiume per pochi chilometri, magari a valle, se la stessa operazione non è stata fatta anche a monte. E proprio questo ci porta a un altro ragionamento: la manutenzione delle nostre montagne, che siano appenniniche o alpine.
Dal dopoguerra in poi questi territori sono stati lasciati a loro stessi, lo spopolamento ha portato la politica a disinteressarsi di aree irrilevanti a livello elettorale, ma fondamentali per l’equilibrio idrogeologico. Ciò è successo per molti motivi, tra i quali possiamo citarne due: è in montagna che i fiumi nascono ed è il territorio montano quello più soggetto alle frane. I comuni montani gestiscono un immenso patrimonio, vitale per l’economia e il benessere del Paese ma anche potenzialmente mortale in caso di eventi meteorologici estremi, come quelli cui assistiamo sempre più spesso. Questi comuni, spesso piccoli e con organici sottodimensionati, devono essere aiutati: più denaro per realizzare le opere, certo, ma anche più risorse umane, più professionalità, più competenze.
Queste sono solo alcune ricette, ma non possiamo nasconderci il grande problema dell’abusivismo (molto spesso condonato) e del consumo di suolo, una piaga che non riusciamo a interrompere. Il caso Emilia Romagna ce l’ha mostrato con drammatico realismo: in zone fortemente antropizzate, il dissesto idrogeologico è più difficile da affrontare perché molti interventi – pensiamo ad esempio alle casse di espansione – comportano un danno per cittadini o imprese, soprattutto agricole. È un equilibrio difficile da trovare, ma non impossibile se gestiamo il territorio in modo più sostenibile e lottando con tutte le forze contro l’ulteriore consumo di suolo.
Piero Farabollini, presidente dell’Ordine dei Geologi delle Marche
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