L’odio corre sui cellulari, una chat usata per coalizzare un gruppo di giovani studenti contro una ragazzina di 13 anni che ha subito umiliazioni e derisioni per mesi. La chiamavano ebola come il virus, per indicare che era da evitarla; “chi la tocca esce dal gruppo” ha scritto uno dei membri del gruppo.
L’ennesima storia di brutale bullismo è avvenuta a Roma e vede come protagonisti 15 adolescenti, tra cui 12 ragazzi e 3 ragazze, indagati dalla Procura di Roma. Le angherie e le prese in giro rese note non presentano elementi di novità ma in questo caso emerge con forza che i nuovi dispositivi digitali e le chat per condividere file e comunicare tra amici possono essere usati anche come uno strumento potentissimo per amplificare le offese e i soprusi nei confronti delle persone più fragili.
La logica del branco si alimenta quindi tramite le nuove tecnologie, ogni sberleffo rimane fissato nella rete e si aggiunge a quello precedente, creando uno storico della vergogna. Certe dinamiche segnate dalla prepotenza del gruppo sono sempre esistite ma ora trovano una eco che può risultare più devastante per la vittima che le subisce. D’altra parte però c’è anche un aspetto che può rivoltarsi contro i carnefici, ovvero lo storico di una firma digitale facilmente rintracciabile dagli inquirenti e che può essere monitora da genitori attenti che usano le applicazioni di parentale control.
La questione di fondo però resta il completo venir meno dell’alleanza educativa scuola-famiglia. La ragazzina oggetto delle attenzioni della chat dell’odio era arrivata al punto di entrare tutti i giorni in ritardo a scuola pur di non incrociare il gruppo dei bulli, ritardi che sono stati puntualmente segnati nel registro elettronico. Viena quindi da chiedersi come sia possibile che tra gli insegnanti nessuno abbia colto questi segnali di malessere e imbarazzo della ragazza. Mentre è possibile che le scuole dopo decenni di dibattito sul tema ancora non sono riuscite ad implementare protocolli e misure efficaci per fermare il fenomeno del bullismo? E infine quello che sorprende di più è il ruolo delle famiglie che sembrano incapaci di impartire le più elementari regole di rispetto della dignità della persona. In questa cornice ci sono spesso poi anche tanti testimoni silenti che preferiscono girarsi dall’altra parte.
Capitolo a parte meriterebbe la questione dell’educazione ai nuovi media che prevedono un uso che sfugge spesso al controllo degli adulti, perché individuale e isolato (la televisione era al centro del salotto e facilmente gestibile dai genitori). Vista l’epidemia della dipendenza da cellulare tra le nuove generazioni, gli psicoterapeuti per prima cosa consigliano ai genitori di imporre una limitazione dell’uso quotidiano dei dispositivi digitali. Dopo di che la scuola dovrebbe porre in maniera interdisciplinare l’educazione ad un uso consapevole ed etico dei social e delle tecnologie digitali.
Va detto però che non tutto è perduto, molti sono infatti i giovani che usano i nuovi media per diffondere il bene e per contaminare le periferie digitali con esempi positivi. Lo ha dimostrato beato Carlo Acutis giovane pioniere dell’evangelizzazione sul web.
Il bene o il male possono essere enfatizzati e rilanciati dai social ma sbocciano nel cuore delle persone. Per questo scuola e famiglia devono strutturare la personalità dei ragazzi ponendo la dignità della persona una al centro di ogni progetto educativo. La sfida non semplice in tempi in cui le spinte individualistiche inducono alla sopraffazione del prossimo ma siamo obbligati ad affrontarla.
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