La grande illusione della società della crescita, la quale poneva come fondante l’equazione: più possessi più ricchezza, più felicità è miseramente fallita.
Il convincimento che l’avere potesse garantire per l’individuo l’automatica e conseguente crescita della sua cultura, delle conoscenze artistiche, della sensibilità verso il mondo, della conoscenza, infine della vita e delle cose, è dunque una elevazione dello spirito, è penosamente svanito.
La scelta pervicacemente inseguita del progresso illimitato, dell’abbondanza materiale, della quantità sulla qualità, non ha risolto non ha pagato.
Le città, piccole e grandi, come ci ripetono gli esperti da troppi anni, sono sull’orlo del collasso ambientale, del tracollo amministrativo e politico, della paralisi educativa della scuola.
Anche nel nostro microcosmo territoriale è possibile riscontrare precisi segnali di folle continuità, di viscerale attardamento, giustificato solo da una permanente e tenace condizione di sottocultura che non risparmia nessuno.
La cosiddetta classe dirigente, politici, imprenditori, liberi professionisti, insegnati, il fu ceto medio e le categorie economiche, eccezion fatta per alcuni gruppi di individui il cui impegno professionale e sociale è fuori discussione.
Ma è noto, l’eccezione non fa la regola.
Intanto il paradosso di una barbarie tecnologica è tristemente evidente, convive naturalmente con chi pensa alla curvatura dello spazio e chi a Santa Maria Goretti.
Per farla breve: la sottocultura rimane il nostro pane quotidiano, con tutte le implicazioni che ne derivano.
e.l.