La ricostruzione del campidoglio, nel progetto di Michelangelo e per commissione di Paolo III Papa, nel 1536 circa, trova il suo culmine nell’ovato, la stupefacente piazza, il cui lastricato, nel disegno allegorico, include il paragone ideologico del sole con l’eternità di Roma sul Colle Augusto.
Essa, accordando l’idea antica con il rinascimento “eterno tempo siderale”, non prevedeva la sistemazione della statua equestre di Marco Aurelio il Divino, voluta invece da Paolo III, poiché, come già intuito da Michelangelo, nel rispetto del monumento bronzeo, e in contrasto con lo stesso Papa, essa non era “statua di centro”.
Rimossa nel 1981, rimane uno dei grandissimi simboli di Roma.
Di fronte ad essa, un silenzio solenne sommerge il riguardante, il quale, sovrastato dall’imponenza maestosa della figura e inchiodato dal gesto pacifero dell’imperatore e della sua espressione patetica, cogli appieno e comprende tutto il dramma dell’uomo e dell’epoca cupa e agitata che visse, il presagio del luogo e doloroso travaglio che avvolse e oscurò i secoli successivi agli Antonini.
Tre anni dopo l’erezione del monumento equestre, il 10 marzo del 180 d.C., in piena guerra contro i Germani, nel quartiere generale dell’armata sul Danubio, Marco Aurelio cadde gravemente malato.
L’esercito era devastato da un’epidemia simile alla peste che, sparsa fino a Roma, ebbe conseguenze terribili, tanto per i corpi quanto per le menti degli uomini, travolti dall’irrazionalismo magico-religioso e dalla superstizione. Questo il commento di Marco nelle sue “Memorie”:”è peste la corruzione della mente ancor più che l’infettarsi e corrompersi di questa aria che ci circonda.
L’una è la peste degli animali in quello che hanno di animale; l’altra è peste degli uomini in quello che li fa uomini”.
Non si fece nessuna illusione sulla sua condizione e predispose i necessari provvedimenti per la successione, poi, si astenne dal cibo e dalle bevande.
Dopo sei giorni di malattia conversò brevemente con gli amici un’ultima volta, sui grandi temi filosofici che gli erano cari.
Essi trattennero a stento le lacrime e Marco se ne lamentò.
Il settimo giorno, aggravandosi, ammise al capezzale per pochissimo, il figlio Commodo, e poi, rimasto solo, si coprì il capo come per dormire.
Morì durante la notte. Stava per compiere 59 anni.
Dopo Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio, il suo regno chiuse i tempi della grandezza romana e quella antica.
Con lui, senza dubbio alcuno, regnò la filosofia.
Per un attimo il mondo fu governato dall’uomo migliore e più grande del suo tempo, colui che incarnava pienamente il razionalismo aristocratico imperiale, il quale voleva al potere la saggezza e la virtù.
La filosofia stoica, strumento della sua azione politica, divenne per lui umanissima religione, nella quale religione, come una luce divina, poteva e doveva riunire la grande famiglia sociale.
Per Marco, la legge morale, compresa come legge divina, era di per sé un atto religioso, la quale nell’esplicarsi compensa se stessa.
A essa si sottomise, a essa consacrò la sua vita.
Dall’esempio di tanta eccellenza, la sua memoria, finché sopravvisse l’impero, fu oggetto di culto.
Settimio Severo impose ai suoi due figli il nome di Antonino.
Macrino, dopo Caracalla, fece lo stesso per il proprio figlio.
Sotto Diocleziano, in molte case private la statua di Marco Aurelio fu venerata accanto ai Penati.
Costantino, per quanto cristiano, guardò a lui come un nume tutelare.
Ma egli non bastò a “salvare il mondo”.
Una profondissima crisi economica, religiosa e sociale, segnata da un radicale conservatorismo e dalla rinuncia a ogni forma di progresso, accompagnata dall’enorme piaga dello schiavismo che alimentava la smisurata moltitudine dei poveri, stava già da decenni travolgendo l’impero, e sullo scorcio del nuovo secolo, toccò anche i vertici dello Stato.
Commodo, figlio di Marco si rivelò uomo “lordo di ogni sorta di vizio”e incline alle più cupe efferatezze.
Fu strangolato per ordine del Prefetto del Pretorio il 31 dicembre del 192 e colpito dalla damnatio memoriae.
Ma non era un caso isolato: molti senatori erano “altrettanto infami”.
Il regno di Pertinace, che lo seguì, durò meno di tre mesi: finì assassinato su istigazione dell’ambiente senatorio.
All’incirca tanto durò Didio Giuliano, eletto imperatore dai soldati e dagli stessi ucciso.
In tanta confusione istituzionale, un provinciale, un “semi – barbaro”, salì al potere stabilmente Settimio Severo, un africano di Leptis Magna, originario di una famiglia equestre, a 13 anni dalla morte di Marco Aurelio e dopo 84 anni di regime eccellente, alla testa delle sue legioni, non meno barbare, si impadronì, senza colpo ferire dello Stato, inaugurando, come giustamente venne definito, il Basso Impero.
Terracina formidabile avamposto strategico per l’espansione nel Mediterraneo, che aveva seguito per secoli, le straordinarie fortune di Roma, ne condivise fatalmente il declino.
Il segno potente del rovesciamento di tutti i valori, lo stigma indelebile del rovesciamento di una civiltà, arrivò, per la florida “Colonia Anxurnas”, a metà del II secolo d.C., con il martirio di Cesareo, la morte di un patrizio con la quale, la pretesa cristiana, negando l’antico, afferma una nuovo visione del mondo.
Era finito il tempo degli eroi, cominciava quello dei santi.
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