“L’unico vantaggio dei vinti è quello di non sperare nella salvezza”.
Questa “sentenza”, scritta 18 secoli prima che il brigantaggio dilagasse, da Publio Virgilio Marone, il “poeta divino” spiega come nessun’altra, la ragione ultima per la quale l’uomo, in particolare condizione di “separazione”, incrudisce fino a giustificare l’assassinio, diminuisce sino a divenire con i suoi simili “orda”, regredisce in quello stato anomalo di sub-umano, il quale diviene paradossalmente anche il suo vantaggio.
Così fu per il fenomeno del brigantaggio, che tenne in scacco lo Stato per buona parte del XIX secolo; che non conobbe sosta alcuna e molto si accentuò subito dopo la proclamazione del Regno d’Italia.
Contro di esso furono emanati editti, bandi e leggi speciali, ma tanto le truppe pontificie che francesi, quanto le napoletane non riuscirono a distruggerlo.
Di giorno le vie pubbliche divennero pericolose e infrequentabili; di notte le abitazioni dei paesi più popolati erano assalite a scopo di rapina e sequestro, i quali si risolvevano per lo più con barbare uccisioni, pur avendo le famiglie pagate le richieste di denaro.
Nell’Italia meridionale e per ragioni politiche, la piaga del brigantaggio si inasprì, dopo il 1860, per molti sbandati dell’esercito borbonico che ingrossarono le file delle bande fuori legge.
Da Roma, dove Francesco II si era ritirato, ospite del Papa, il re e lo stesso vaticano incitavano i ribelli, li rifornivano di armi e denaro, inviavano gente di fiducia tra di loro.
Terracina, posta al confine con il nuovo Regno d’Italia, fu uno dei centri d’intrigo e di rifornimento del brigantaggio “politico” nonché teatro, tra i tanti, di un tristissimo episodio che vide in qualità di vittima il canonico Carlo Bianchi e Gaetano Loffredo, nativi della città, ed Eliseo Altieri del Registro di Fondi, assassinati in modo così crudele che all’inizio del nostro secolo, 50 anni dopo il fatto, la popolazione ne parlava ancora turbata, tanto era vivo il ricordo.
Carlo Bianchi, pur esercitando come sacerdote era di sentimenti e idee liberali, credeva nel nuovo Regno d’Italia ed era perciò inviso al partito reazionario per l’influenza che esercitava sul popolo.
Nella notte del 16 ottobre 1861 fu sequestrato insieme al Loffredo e all’Altieri, a mezza strada tra Fondi e Itri, mentre si recavano in carrozza a Gaeta.
Trascinati sulle montagne al limite del confine furono legati a tronchi d’albero e li tenuti per tre giorni e tre notti, guardati a vista e sottoposti a violenze varie: schiaffi, pugni, sputi, calciate di fucile.
Nonostante fosse stato pagato dalle famiglie un riscatto di 900 ducati, essi furono sottoposti a orrenda carneficina, poiché per “volontà politica” non potevano essere rilasciati.
Dopo numerosi colpi di stiletto e baionetta, mutilazioni e altri tormenti, finalmente fu recisa al Bianchi ed all’Altieri la testa con l’opera dello stiletto poiché “su di loro stava il taglione dello Stato Romano” e all’altro fu troncato il capo con la scure.
Le tre teste furono di notte portate sul parapetto di un ponticello, sulla strada, poco lontano da dove fu assalita la diligenza ed esposte con sotto a ognuna di esse un cartello che diceva: ”Uccisi perché nemici della religione e del legittimo re!”.
Dopo il triplice misfatto, le proteste delle famiglie delle vittime non si placarono, ma divennero clamorose e insistenti fino a determinare l’impegno delle truppe francesi che riuscirono infine a individuare e catturare Giuseppe Conte e il famigerato Francesco Piazza, massimi responsabili dell’eccidio, i quali furono consegnati alle autorità italiane e condannati all’ergastolo.
Nel 1863 il primo Parlamento italiano emanò la legge marziale su tutti i territori infestati dal brigantaggio e nel 1865, le operazioni militari condotte dal generale Pallavicino posero fine allo stesso come fenomeno di massa.
“La disperazione dei vinti”, come scrisse Publio Virgilio Marone, il “poeta divino”; è indubbio “l’unico loro vantaggio”, ben magro in verità, a cui potrebbe aggiungere: “Non certamente nei confronti dei vincitori!”.
Venceslao