Mentre cominciava a brillare la stella di Federico II di Hohenstaufen imperatore, l’uomo più geniale del secolo, e quella di Francesco d’Assisi, l’uomo più spirituale, nella Terracina dell’inizio del XIII secolo, la “libertas” dei cittadini e con essa la sovranità papale, continuava a essere gravemente minacciata.
Difatti, al venir meno dell’egemonia dei Frangipani, si affermò, con egual pretese quella della famiglia degli Annibaldi, loro vecchi alleati, contrastata tenacemente fino alla fine del secolo, da quella dei Ceccanesi, signori di Sezze, cui peraltro si affiancarono ben presto, le mire espansionistiche del Comune di Roma da una parte e le molestie del Regno di Napoli dall’altra, con le continue invasioni e devastazioni della tenuta del Salto.
Il ramo principale della famiglia Annibaldi sembra discendere da quel Pietro di Annibaldo, “sororius” di Innocenzo III, al quale, nel 1203 su ordine del Papa, i terracinesi avrebbero dovuto consegnare la Rocca del Circeo.
I loro interessi perciò, fin dal principio del Duecento, dovevano essere a Terracina molto forti, ma nonostante ciò poco sappiamo dello sviluppo della casata nel corso della metà del XIII secolo, e quanto li incontriamo di nuovo, poco dopo il 1250, essi si trovano al culmine della loro potenza, tanto da imporre al Comune l’elezione del Potestà, scelto tra i membri della loro famiglia.
Nonostante la volontà dei cittadini a resistere alle loro pretese prima, e a tutti coloro poi, che per un verso o per l’altro, accampavano diritti sulla città, attraverso il continuo ricorso ai pontefici, alle alleanze con i paesi circostanti (con Fondi nel 1216, con Sezze nel 1257 e San Felice Circeo nel 1270), la lotta per il predominio sul territorio continuò accanita per 20 anni circa, e più aspra e cruda si fece nell’ultimo trentennio del secolo, con i vari gruppi familiari, inoltre, fortemente divisi, perché schierati ora da una parte ora con l’altra: i ceccanesi difatti erano appoggiati dal ceto medio con a capo le famiglie Valeri, dei Sanguigni, dei Davini, mentre gli Annibaldi dall’alta nobiltà, con a capo i ricchi altrettanto potenti Perunti, che peraltro si appoggiavano al popolo.
Lo scontro, il quale aveva per oggetto la conquista delle cariche pubbliche, fu sempre durissimo, e i mezzi usati i peggiori: distruzione di case torri, irruzioni violente in città, devastazioni di raccolti in campagna, intimidazioni, furti, incendi, assassinii, una lotta cieca piena di sangue e di odio.
Solo con Niccolò IV Papa (1288 – 1292), eletto Potestà a vita dai terracinesi esausti, s’incominciò a produrre atti concreti per frenare quella che ormai era una situazione di totale anarchia.
Nel 1291 scrisse a Giovanni Colonna senatore dell’Urbe ordinandogli di desistere dalle pretese sulla città.
Annullò le varie elezioni con le quali gli Annibaldi erano riusciti a strappare le cariche e vietò tanto a loro quanto ai ceccanesi di entrare in città.
Divieto che inasprì ulteriormente gli animi e scatenò le fazioni in una feroce rivalsa.
Ma l’azione più decisa la condusse Bonifacio VIII (1294 – 1303) che assunta la suprema carica cittadina, in modo quanto mai determinato rovesciò la situazione, anche perché i nemici inconciliabili della Chiesa, furono che il popolo, ormai di dichiarato orientamento pontificio, erano chiaramente individuabili.
Richiamati in vigore i provvedimenti di Niccolò IV contro i Perunti, i Valeri, i Sanguigni, i Davini, intimò a Niccolò di Pietro di Trasmondo Annibaldi e ai suoi fratelli, di non intromettersi in qualsiasi forma di acquisto beni, di elezioni alle cariche cittadine.
Confiscò i beni mobili e immobili acquistati in città e nel territorio a loro e alla famiglia dei ceccanesi, compresi quelli della Diocesi di Francesco di Ceccano, già vescovo di Terracina e Avellino.
Revocò inoltre le alienazioni fatte dai terracinesi su alcune terre di uso comune fra Terracina e Priverno e privò del beneficio il fratello di Francesco, Riccardo di Ceccano, canonico terracinese.
Tolse infine per dieci anni alla città il diritto di eleggersi Potestà, Rettori o Consoli, stabilendo che la scelta fosse riservata alla Chiesa, riordinò le finanze comunali, accrescendone i proventi così come aveva fatto con Sezze e Anagni e coerente alla sua politica di favore ai Comuni e alle democrazie cittadine, proseguì con una strategia sinergia di difesa popolare appoggiato dalle più forti famiglie filo-pontificie, nonché di azione spregiudicata contro il partito avverso, che rimase, nonostante tutti i suoi sforzi, un potente oppositore.
Era passata ormai da decenni la stella rifulgente di Federico II, l’uomo più geniale del secolo, era passata quella di Francesco d’Assisi, l’uomo più spirituale, erano passati fatalmente anche i sogni di potenza degli Annibaldi, ma non passò, non finì il travaglio dei terracinesi: lo “schiaffo di Anagni” nel settembre del 1303 e la morte di Bonifacio VIII nello stesso anno sconvolsero tutto di nuovo e Terracina fu coinvolta in nuovi tumulti e rinnovate lotte, intestine e di confine, per tutto il secolo XIV, ma questa, come scrive qualcuno, è un’altra storia.
Venceslao
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