Presso la tribù dei Ciriguani, in America del Sud, quando due uomini s’incontravano, il saluto che si scambiavano è questo:”Sei vivo?”, e l’altro:”Sì sono vivo!”.
Quando più appropriato, sarebbe stato tale saluto per i terracinesi, allorché furono investiti, agli inizi del 1500 ed ininterrottamente per tutto il secolo ed oltre, dalla furia devastante dell’infezione malarica, la cui recrudescenza altalenante ha contribuito nei millenni a rendere l’aspetto e al tempo stesso terribile ed affascinante il nostro territorio.
Nel momento di maggiore splendore e prosperità dell’Italia, quello del Rinascimento, in cui si toccarono le punte estreme dello sviluppo politico, economico, artistico, culturale e demografico, il flagello virale, che consumò le menti, che attaccò e distrusse la vita fisica degli abitanti, impedì a Terracina di partecipare al vasto beneficio che si produsse tra il XV e il XVI secolo. Sotto il pontificato di Paolo III la situazione era già disperata, tanto che nel 1540, in una lettera al governatore di Terracina Gian Gaspare Argullo, nel ricordare che il numero di abitanti si era ormai ridotto a 1000, era necessario rivedere l’organizzazione civile e militare della città.
In seguito Giulio II, in data 7 gennaio 1554, esentò i cittadini per cinque anni dal pagamento dei tributi alla camera apostolica a condizione che l’importo venisse utilizzato nella bonifica del “Fiumicello”, secondo lui causa primaria dei miasmi omicidi.
Dopo appena quindici anni, con Pio V papa, la popolazione si dimezzò: 500 abitanti malridotti che si trascinarono per altri sette anni fino al 1572, quando ricevettero il colpo di grazia con una epidemia totale che il Contatore, medico e storico terracinese chiamò ”il castrone”, il quale ridusse la città a 150 anime: in una sola stagione sostanzialmente scomparve il popolo terracinese.
Spaventosi gli effetti dell’epidemia che si colorò delle fosche tinte delle grandi tragedie: all’interno delle mura dell’ultima città dello Stato Pontificio, si aggirava una scarsa popolazione risucchiata dalla febbre, con gli occhi allucinati, dai ventri enormi per la milza ipertrofica su cui imperversava la virulenza del morbo che in poco tempo seminò morte nelle case, fra gli uomini di ogni età e di ogni ceto.
I cadaveri non si riuscivano a trasportare e seppellirli: restavano nelle case, imputridivano, ammorbavano l’aria di esalazioni pestilenziali, mentre uno stato di ebete atonia si impadroniva dei pochissimi scampati.
Fuggirono tutti: il vescovo, i pochi sacerdoti, il governatore, gli ufficiali cittadini e le 40 famiglie superstiti.
Una tra le più belle residenze estive dell’Impero era diventata una città morta, su cui infierirono per di più le incursioni turche.
Passò quasi un secolo (85 anni), dopo la furia malarica, per avere un segnale di ripresa, con il primo censimento dello Stato Pontificio, che nel 1656 contò 1395 abitanti sui 3740 di Priverno, i 2978 di Sezze, i 2161 di Sermoneta.
Quarantacinque anni dopo, nel 1701 la popolazione salì, sotto Clemente XI a 2116 anime, e sarebbe stato veramente il caso, nell’incontrare una terracinese, di salutarlo dicendo:”Sei vivo?”, e l’altro: “Sì, sono vivo!”.
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Foto Alfredo D’Elia