Chi ha una qualche confidenza con le cose dell’arte e dello spirito avrà certamente avuto modo di presentire, aggirandosi nell’area intorno a Pisco Montano, o inerpicandosi lungo il declivio al quale esso è addossato, tutta la terribilità e la vertigine che tale luogo promana.
La “solitudine plastica” propria delle forme naturali, nel gigantismo presile, il riguardante, il quale, come spostato nello spazio e nel tempo è trascinato da un sentimento di profonda inquietudine e dolcezza, tipico dei luoghi abitati dalla “profondità”.
Se a questo si aggiunge la “solitudine dei segni”, solitudine eminentemente metafisica e legata alle presenze umane, qui come in nessun altro luogo terracinese sedimentale e stratificate, si possono cogliere allora tutte le stranianti impressioni della condizione estatica, “dell’uscir fuori di sé”, la liberazione conoscitiva attraverso la quale “vedere” oltre i limiti, in una dilatazione psichica capace di afferrare i punti terminali delle opposizioni che l’uomo porta in sé: l’animale e il dio.
Tale suggestione è massimamente avvertita all’ingresso del cosiddetto “Riparo Salvini”, tra le pareti calcaree di Monte Sant’Angelo e il Pisco Montano, imponenti formazioni di alghe e coralli del Cretacico Superiore, coronate di rigogliosa vegetazione mediterranea: lentisco e fillirea.
Qui ogni pensiero scompare.
Si precipita in un baleno negli abissi temporali dell’ultima parte della glaciazione Wurmiana, il Dryas II, una fase fredda del Paleolitico Superiore: 12.400 anni fa.
Si assiste allora stupefatti alla primigenia attività dell’uomo: un piccolo gruppo di cacciatori – raccoglitori (20/30) appartenenti a una comunità più vasta stanziata in vicine zone piane, che utilizza il riparo come postazione di caccia, armati di strumenti ricavati dalla roccia, lame e schegge di vario tipo, con i quali, allo stato di orde in atteggiamento ritualizzato tentano la cattura e l’uccisione degli animali transitanti.
Si assiste nello stesso tempo e non senza meraviglia, al passaggio nelle zone circostanti il Riparo, di numerose specie faunistiche come il leone delle caverne, il cervo, predominante in assoluto, il capriolo, l’asino, il cinghiale, il camoscio, lo stambecco, che come spettrali figure migrano per il ciclo stagionale.
Si assiste, nel silenzio salmastro e odoroso di spume, non senza sgomento, all’immane presenza della natura che, nell’attimo visionario mostra tutto il respiro del suo essere; gioco e violenza, benevolenza e crudeltà, desiderio e distacco, estasi e spasimo, vita e morte.
S’odono solo, musica primordiale, venti freddi sibilare.
Sciolta ogni apparizione, resta il brivido degli accadimenti improvvisi.
In questo luogo di premonizioni dunque, nel luogo delle “solitudini inquiete”, la natura ancora si svela e si offre, nel sangue riassorbito dei suoi figli, nella dolcezza della beatitudine contemplativa.
Qui possono nascere ancora gli dei, liberi dagli incanti, rimane il ribrezzo di trovarsi sbattuti davanti all’invadente imbecillità moderna di una fila di distributori di benzina e ristoranti, i quali stanno a riguardo dell’imponenza naturale e architettonica del sito, come gli infissi in alluminio anodizzato, starebbero ai tre ordini di arcate del Colosseo.
Viaggiatore che avrai la fortuna di sostare in quest’angolo del mondo, ricorda che qui ”alto si leva il suono della cetra: da qualche luogo segreto mugghiano in risposta terrificanti imitatori dalla voce taurina, e la parvenza sonora di un timpano, come di un tuono sotterraneo, si propaga con oppressione tremenda” (Eschilo).
Venceslao
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