L’Impero, il Papato, i Comuni, furono tre “grandi questioni” sulle quali passò, per quasi tutto l’XI secolo, con una furia titanica, Ildebrando di Soana, divenuto Papa con il nome di Gregorio VII.
Nato in Toscana tra il 1015/1020, monaco, consigliere di Gregorio VI, Leone VIII e Alessandro II, egli ispirò la sua azione a una visione rigidamente teocratica, e mentre combatteva la simonia, e cioè il traffico dei benefici ecclesiastici e la dissoluzione dei costumi; mirava nello stesso tempo all’affermazione della superiorità del potere papale, in virtù del quale il Papa è:”libero di disporre dell’Imperatore!”.
Di qui la formulazione delle 27 proposizioni del Dictatus Papae: una grande riforma in cui è espressa la volontà di liberazione della chiesa da ogni dipendenza laica; di qui la lunga “lotta delle investiture”, l’umiliazione di Enrico IV a Canossa, lo spirito di rivolta antifeudale, l’anelito alla libertà comunale.
Le tendenze più varie dunque della nuova società europea sorta dopo il 1000 seppe esprimere in modo inaudito e che in Gregorio VII confluirono completamente.
Si affermò contemporaneamente e soprattutto nell’Italia centrale e meridionale, la presenza di una cultura figurativa antichizzante, legata alle esigenze della Chiesa riformata e tesa al recupero di una dimensione “paleocristiana”, il cui riferimento a Roma, giacché modello ideale maturò un’arte dai frutti felicissimi, la quale, con il suo richiamo esplicito non poteva non definirsi “Romanica”.
Terracina è protagonista a pieno titolo dei sommovimenti che traversarono il secolo:Vescovado importante che ingloba le diocesi di Priverno e Sezze, lembo estremo, ultima città della “Terra Beati Petri”, affidata perciò a Desiderio di Montecassino, sicuro esponente del partito riformatore, poi Papa Vittore III, vide emergere in questi anni nuovi ceti sociali: mercantili, artigianali e soprattutto militari, i milites, i quali sostituendo l’antica aristocrazia, furono in grado di strutturare un efficiente organismo sociale, sicuro centro di produzione e scambio per una intensa e florida vita economica.
Questo intreccio di energie tra il costituito potere religioso e il costituendo potere civile, culminò il 24 novembre del 1074 con la consacrazione, da parte del Vescovo Ambrogio, dopo un grande restauro rifacimento, della Cattedrale di San Cesareo e raggiunse l’acme con l’elezione a Terracina nel marzo del 1088 di Urbano II Papa, colui che sancì il trionfo della linea politica di Gregorio VII e bandì la prima crociata.
Ma quale straordinario luogo di confluenza culturale, quale incredibile crocevia di popoli, lingue e tradizioni che era Terracina di quegli anni lo racconta meglio e su un piano meno ufficiale, meno pubblico e perciò stesso più autentico la cosiddetta “Cassa di Terracina” (metà dell’XI secolo), la cui funzione ormai certa, era quella di contenitore di documenti ecclesiastici, la quale riassume e spiega, come solo possono fare le opere d’arte, la storia e la vita di una città costiera, aperta agli influssi dei grandi traffici internazionali e chiave geografica di un territorio storicamente importante.
Chiari difatti, dal punto di vista stilistico, gli influssi occidentali, e in particolare il Longobardo e il Normanno; come pure chiari appaiono gli influssi orientali, e cioè il Bizantino, il Sassanide, l’Arabo, mediati evidentemente da maestranze campane operanti nel territorio del Lazio meridionale.
L’energia e il dinamismo rude che nascono dai movimenti e dai gesti, di animali e uomini, presenti nei rilievi e nell’incisione stessa non possono non ricondursi a un’espressività del Nord Europa: deformata, asimmetrica, inorganica e pure così fortemente comunicativa.
Il grifone e le stellette cruciformi, riportano a schemi Sassanidi; come a motivi Arabi vanno ricondotte le palmette dei montanti d’angolo.
Come pure e in modo più deciso, a influsso Bizantino mediato va riportata l’iconografia della Cassa, e cioè il significato delle immagini, nelle quali è rappresentata, attraverso i terribili scontri tra uomini e animali la lotta tra il bene ed il male, tema per altro tra i più ricorrenti nell’arte medievale.
Ma non mancano riferimenti a tradizioni più classicistiche, come l’interpretazione dello schema paleocristiano dei sarcofagi, con arcate, colonne e capitelli.
Siamo comunque di fronte ad un’opera il cui valore ornamentale rimane predominante, reso secondo una modalità esclusivamente espressionista.
Un’opera complessa, la quale si affianca al linguaggio Aulico Bizantino, parlando un sicuro e compiuto dialetto, più diretto e spontaneo e perciò stesso ricco di futuro, sollevandolo su un diverso piano di ufficialità come già avvenuto nel tardo antico (fatte le debite differenze) per la cosiddetta “Arte Plebea”, il cui sostrato rimane comunque la tradizione e la cultura classica.
Se dunque Terracina nel secolo di Gregorio XII, la Cattedrale ne costituì il fondamento colto, non di meno la “Cassa” ne rappresentò la diretta espressione popolare, il vivo e comune linguaggio quotidiano.
Confermando nella pluralità delle voci e fermenti diversi quel bisogno di una nuova dimensione sociale e civile che ne fece per tre secoli una libera città comunale.
Venceslao
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