Attraverso i racconti di quelli che allora erano bambini (Umberto Recchia, Carlo De Prosperis, Alberto Pandozzi), ci viene incontro dalle nebbie del passato il ricordo di vecchi terracinesi ed una associazione da essi fondata.
Poco dopo il 1900 in Roma e nei paesi della provincia sorsero gioiose associazioni gastronomiche che furono soffocate e spente dal Fascismo tra il 1919 e il 1922.
Si piccavano di avere un nome, uno stendardo, una bandiera ed un inno. Nota, per esempio è la romana Società dei Magnaccioni, il cui inno è da tutti riconosciuto.
Nella Terracina di quei tempi, promossa da Paulucce j’Agnòle (Paolo Recchia) e Carlucce Saporito, sorse la Società Luculliana che, come le altre, aveva uno stendardo (una bandiera tricolore con al centro il nome della società a lettere dorate) e un inno composto da Carlo Saporito per le parole e da Paulucce j’Agnòle per la musica.
Le condizioni della classe proletaria non erano certe floride: non consentivano, tranne qualche sposalizio, di farsi una mangiata “vera”, diversa dalla solita zuppa di fagioli o polenta o broccoletràpe (broccoletti) o cucuzzièj (zucchine) – ed inoltre l’appartenervi era un casareccio status symbol che dava loro l’illusione di elevarsi dal grigiore della massa in cui erano costretti.
La sede, si fa per dire, era la cantina de j’Agnòle sita all’imbocco di vicolo della Palma – in quel rudere che da 40 anni si dice che deve essere abbattuto, tanto che è diventato un’altra favola cittadina che si racconta ai bambini per spaventarli e tenerli buoni.
Questi ne era anche il tesoriere al quale i soci versavano settimanalmente la bella somma di quattro soldi, pari a 20 centesimi di lira.
Il martedì dopo Pasqua e l’Uttubbarara erano le due giornate dell’anno che la Società si riuniva a festeggiare.
Nei giorni precedenti la Società si scuoteva dal letargo.
Si stilava il menù, c’era l’andirivieni frenetico dei soci per l’acquisto delle vivande e per tutto quanto necessitava per una buona riuscita della festa.
Nelle abitazioni i familiari preparavano le bandierine tricolori di carta che avrebbero, poi inalberato sui cappelli e distribuito ai bambini di casa più piccoli che insieme a loro partecipavano al simposio.
Al tocco del giorno convenuto si poteva vedere la teoria delle Terennale che con i canestri in testa salivano verso La Fossata, dove fino a sera, fra canti e suoni – che alcuni di loro erano suonatori di un qualche strumento – mangiavano e bevevano.
Ostia, se mangiavano e bevevano!!!
Ed era anche una festa cittadina, perché i paesani fremevano per vederli rientrare in paese.
Infatti, la sera, ala luce delle torce a vento, con le bandierine inalberate sui cappelli, le fronde di mortella e cantando il loro inno, scendevano in paese e preceduti dal vessillo e dai musici le attraversavano – non c’è dato sapere fino a quale punto – seguiti dal codazzo di ragazzi bercianti ed ammiranti dalla donne che all’imbocco dei vicoli e dalle finestre li guardavano scambiandosi allegri commenti, frizzi e motteggi, sulla sbronza di questo e di quello?
La “processione” nel suo andare faceva due tappe, che erano diventate delle consuetudini.
La prima al Caffè del Duomo, gestito da z’Iuccia, e la seconda alla Cantina dei Corrieri in via Nazionale (oggi G. Marconi) gestita da Chicchepaùle (Francesco paolo Di Pinto) per il “bicchiere della staffa” e si scioglieva definitamente in piazza Municipio, non senza aver rotto i zebbedei a mezzo paese.
Erano queste, dunque, la due fatidiche giornate nella quali la Società Luculliana aveva la sua apoteosi.
In queste giornate i Soci esprimevano tutta la loro potenza insita nelle loro robuste mandibole e la capacità abissale dei loro stomaci, gettando all’attacco della mensa tutte le riserve di cui disponevano e che avevano accumulato per mesi o forse, chissà, atavicamente da secoli.
Dell’inno abbiamo recuperato tutto il testo musicale (strofe e ritornello) ma delle “parole” abbiamo solo tre strofe. Quelle del ritornello ci mancano tutte.
Inno della Società Luculliana
I strofa
“Chi ci ha la moglie
che non ci pensa
la ceda al prete
lui resti senza.
II strofa
Chi mangia e
viva l’amore
chi sta a digiuno
stenta e poi muore
III strofa
Viva, compagni,
gridate con me:
viva chi mangia
per due e per tre.
Genesio Cittarelli
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