Che la ricchezza e potere non facciano civile l’uomo, è ampiamente dimostrato dalla storia, e massimamente lo dimostrò colui che si fregiava dell’appellativo di “Re Sole” (Luigi XIV di Francia), il quale, nonostante i preziosi vestiti che indossava, in dispregio alla sua igiene personale e dei suoi simili, puzzava come un caprone, con tutto il rispetto per l’animale.
Viceversa, chi sempre la “Storia” bollò come “barbaro”, Teodorico, Re dei Goti (nato nel 457, morto nel 526 d.C.), dette ampia dimostrazione di civiltà, sia per l’Impero, destinato fatalmente a cadere, sia per Terracina, che lo riconobbe come suo benefattore.
Nessuno, dopo Traiano e Antonino, aveva fatto tanto per la città.
Egli avviò il ripristino della via Appia da Treponti a Terracina, inondata per lo straripamento delle paludi, e parallelamente l’impresa titanica del prosciugamento e bonifica delle stesse.
Restaurò e ingrandì la cinta muraria (ancora oggi il camminamento di ronda si percorre interamente) e le difese della città, ed elaborò una grande piazza militare. Probabilmente fu lui a fondare il più antico dei suoi monasteri in cui si stabilirono in seguito dei monaci Benedettini che consacrarono il santuario all’Arcangelo S. Michele, da cui il nome del famosissimo Monte S. Angelo o Monte giove.
I pochi documenti che ci restano, non ci dicono molto sulle condizioni generali della città né molto possiamo ricavare dalle vestigia dell’epoca, le quali sono frammiste a quelle dell’epoca precedente e della successiva.
Tuttavia è lecito supporre una relativa prosperità della popolazione sia in termini economici sia demografici.
Con la morte di Teodorico finì per l’Italia la storia romana. Egli fu, con un’amministrazione, un senato, una corte romana, un degno erede degli imperatori d’Occidente.
Il suo regno fu dentro la tradizione, continuò e concluse i tempi antichi e nel contempo aprì il cosiddetto “Medio Evo”.
Dopo di lui per l’Italia, ed in particolare per Terracina, iniziò un periodo di lenta ed inesorabile distruzione degli uomini e della città, nel quali vi fu una sola grande protagonista: la palude, che si estendeva come è scritto:”usque ad iactum lapidis”, ad un tiro di sasso dalle mura.
Iniziò il lento e costante insabbiamento del porto, la via Appia si guastò sempre più e fu ricoperta dalle acque nel tratto pontino, i quartieri della città bassa furono abbandonati, la città alta subì numerosi incendi e l’abitato si ridusse ad un campo di rovine in cui vivevano poche centinaia di persone febbricitanti ed affamate, mentre le orde longobarde percorrevano e devastavano il territorio italiano.
Cominciò da qui il secolare potere, civile e religioso della Chiesa, la quale, in tanta miseria economica e politica, fu riconosciuta dalle popolazioni abbandonate a se stesse, quale unica autorità costituita.
“Il mausoleo di Teodorico” a Ravenna, edifico anomalo ma di grande forza strutturale, che accoglie i resti, testimonia bene ed esprime il carattere, al tempo stesso austero e originale di un uomo, che tutto fu fuorché un “barbaro”.
Egli, straniero in Italia, lascia in eredità un senso alto di responsabilità verso questa città che voleva grande.
Una città cento volte morta e cento volte risorta, a cui dobbiamo un rispetto tanto più grande quanto più profonda è la radice dell’impegno e del sacrificio, che generazioni di uomini vi hanno profuso.
A noi, ultimi figli di tanta storia, il dovere di continuare, anche a nome di Teodorico.
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V.