Richiamare alla memoria storica gli accadimenti della vita popolare e popolana di Terracina è diventata per noi una missione quasi imprescindibile.
Di “fatti” ne abbiamo accumulati tanti nel corso della nostra stagione di cronisti, attenti soprattutto a quello che succedeva nel “microcosmo terracinese” per rintracciare storie di vita vissuta, alcune talmente belle da riempire intere pagine sui giornali locali.
Nello spazio che segue riportiamo la cronaca (un po’ romanzata) di un incontro avvenuto il 10 aprile del 2001 tra vecchi amici vissuti tra i vicoli e le strade del Quartiere delle Capanne, convocati a 35 anni dal loro ultimo incontro per un simposium culinario e non solo.
“Capannari per sempre”
Via Fratelli Bandiera e Dino Savelli, due strade inserite in una zona della città da sempre popolata da famiglie della cosiddetta classe operaia.
Di quella gente che si alza veramente alle cinque di mattina, ritrovandosi, come in un rito atavico “giù al ponte” per andare poi a lavorare in uno dei tanti cantieri edili della provincia di Latina.
Via Fratelli Bandiera e Dino Savelli, per tanti ragazzi degli anni ’50 era tutto il mondo conosciuto.
L’ombelico da circumnavigare andando incontro alle mille avventure di fanciulli nati in un contesto sociale e culturale non certamente facile.
La strada quale campo di calcio, palestra sportiva, università della vita, selezione sociale naturale, altro che la teoria di Darwin.
Negli anni ’60 queste due vie risuonavano delle grida di: Gianni “5 lire”, Maurizio “Altafini”, Domenico “isse”, Walter il “tedesco”, Maurizio “stellina”, tutti figli di una classe operaia tutta di un pezzo: insomma, i nuovi “capannari”.
L’altro giorno, dopo ben 35 (+ 16) anni trascorsi senza vedersi, si sono rincontrati.
Sui loro volti era visibile il segno del tempo vissuto, ma anche le tante esperienze di una vita spesso percorsa in salita.
Lo scenario del tanto atteso incontro, preparato con minuziosa regia da Maurizio Vavoli, il ristorante “Il Tordo”, dove tra un antipasto e un buon bicchiere di vino, i ragazzi degli anni ’50 hanno ripercorso i momenti belli della giovinezza trascorsa.
Tante le storie di vita che abbiamo ascoltato, molte tristi, soprattutto quelle che riconducevano ad Angelo Gargano, Maurizio D’Onofrio e Sergio Bove, gli amici di sempre ai quali la vita ha concesso poco e niente in versione futuro.
Nel frattempo arrivava il primo (fettuccine al ragù) e s’iniziava a ricordare i giochi di strada: celadre, “mandelamandelarecchia”, infinite partite a pallone (sempre con quello che costava 450 lire), le estenuanti corse con la corrozzetta bardata a festa con i tappi delle bottiglie di birra.
Quando c’era ancora il “ponte” i più arditi si cimentavano durante la bella stagione nel loro sport preferito: i cento metri di corsa con abilità e destrezza finale.
Il gioco consisteva nel far sparire nel minore tempo possibile dai camion dei foggiani quanti più cocomeri e meloni possibili, per rivenderli e trovare le risorse per andare al cinema o per l’acquisto di qualche gelato.
La tecnica, affinata nel tempo dai partecipanti alla kermesse era la seguente: si aspettavano i camion dei foggiani vicino al “ponte”, il traffico, al quel tempo era sempre congestionato, facendoli rallentante, ed è proprio in questo preciso momento che lo starter faceva scattare il tempo della competizione.
Un elemento dello staffetta saltava sul camion, gli altri due o tre aspettavano il turno per prendere al volo i cocomeri e filarsela attraverso il passaggio segreto delle “scalette”.
Questo duro lavoro sportivo poteva durare anche alcune ore, tanto che nel giardino della “barese” alla fine della giornata si potevano contare più cocomeri che “pantegane” allo stato brado.
All’arrivo del secondo e del contorno (ritorniamo alla cena), le abbondanti libagioni cominciano a fare il loro effetto euforico.
Si parla a ruota libera: di quella volta in cui Pummudor… e soprattutto… di quando i gelatare, recchie a sventela, treppone, angele piccole e grosse, fecero quella…
Interpretazioni di cose, fatti e circostanze, che di reale vita vissuta avevano poco a che fare e soltanto il tempo trascorso, l’ora che si era fatta tarda, e soprattutto il vino rosso riusciva a farle accettare a tutti.
E’ in un tripudio di verità e fregnacce allo stato puro, arriva la torta, il caffè e l’amaro.
Oltre, naturalmente, al “circonciso” discorso finale (ebbe a dire) inneggiante all’orgoglio di essere e rimanere capannari per sempre.
Everardo Longarini
Articolo pubblicato il 10 aprile 2001