Le istituzioni e gli osservatori internazionali (oltre all’Istat e alla Banca d’Italia) da diversi mesi devono rivedere in aumento le previsioni di crescita del Paese. Per quanto riguarda il 2022 l’incremento del Pil si avvicina molto al 4%; il che vorrebbe dire che in due anni dopo l’ora più buia dell’emergenza pandemica l’Italia ha cumulato una crescita superiore a 11 punti di Pil. Nel 2023 non solo sembra scongiurata la temuta recessione, ma si annunciano stime sempre più favorevoli ad ogni check up. Secondo il FMI, ad esempio, Il Pil italiano crescerà dello 0,6% nel 2023 e dello 0,9% nel 2024. Certo non ci attende una marcia trionfale, non dobbiamo aspettarci un nuovo miracolo economico. Con una guerra in corso può succedere di tutto. Ma molte previsioni fosche non si sono verificate. A consuntivo ci si accorge che i massicci stanziamenti di risorse pubbliche a sostegno delle famiglie e delle imprese hanno centrato gli obiettivi, nei momenti più difficili, quando tutto pareva perduto. Grazie anche alle diverse politiche di approvvigionamento il dramma delle bollette si è sgonfiato; così anche l’inflazione (il vero pericolo su cui vigilare) è data in calo. Lo stesso trend è in atto per i carburanti. Nessun ottimismo dunque, ma smettiamola di ragionare come se fossimo in attesa della fine del mondo.
I talk show televisivi sono sempre alla ricerca dell’olocausto dell’economia: ogni difficoltà – ce ne sono state e ce ne saranno tante – viene indicata come una situazione permanente protesa solo ad aggravarsi. Poi quando ci accorgiamo di essere ancora vivi, ci si mette in attesa di un altro rosario di disgrazie. Ma la messa di requiem più solenne viene intonata quando si parla di lavoro e, soprattutto, di giovani. La versione politicamente corretta, che non concede repliche di sorta e quella del “precariato dilagante” (persino l’Inps ha intitolato ‘’Osservatorio sul precariato’’ il bollettino periodico nel quale vengono diffusi i dati del marcato del lavoro), del sottosalario, dell’orario ad libitum del datore regolarmente non retribuito, dell’evasione contributiva, delle truffe in busta paga, dei licenziamenti illegittimi anche nei casi personali più tutelati dalla legge (come la maternità) e quant’altro. Anche in questi casi non si può essere superficiali, perché purtroppo gli arbìtri sono molto diffusi soprattutto in alcune aree del Paese. Ma che senso ha presentarli come una condizione immodificabile che può essere solo subita? Come se fosse in vigore una forma di schiavismo?
Il lavoro povero è sicuramente aumentato soprattutto nel settore terziario. E nei fatti questo stato di cose viene tollerato perché vi è una fascia dell’economia che riesce a sopravvivere soltanto al riparo dell’irregolarità e dell’evasione. Ma quale può essere la risposta se non quella di ricostruire un tessuto ordinato e civile nel contesto delle regole che esistono e attraverso le istituzioni e i soggetti collettivi chiamati a svolgere ruoli di tutela dei diritti e di protezione del lavoro? Altrimenti non se ne esce. In Italia vi è un’altissima percentuale di lavoratori coperti dai contratti collettivi. E’ vigente una legislazione molto avanzata per quanto riguarda la salute e la sicurezza del lavoro; il licenziamento per causa di maternità è nullo; è previsto un ampio ventaglio di tutele sindacali a vantaggio sia dei lavoratori che delle loro organizzazioni. Nel Mezzogiorno i datori possono attingere ad una ricca legislazione di incentivi alle assunzioni (di giovani, di donne, di persone anziane, di disoccupati, cassintegrati, percettori del RdC e quant’altro). A questo proposito c’è un’indagine dell’Inps che mette in evidenza gli effetti di queste politiche di sostegno all’impiego. Il Focus dell’Istituto di previdenza sociale, il dominus delle politiche di sostegno del reddito, ha monitorato, nel complesso, l’impatto delle agevolazioni sul numero di assunzioni e variazioni contrattuali effettuate beneficiando di agevolazioni contributive. Il numero complessivo è risultato pari a 776.000 nel 2019 (su 8,3 milioni di attivazioni complessive); ha superato il milione di unità nel 2020 (su 6,4 milioni di attivazioni complessive) mentre nel 2021 ha raggiunto i 2 milioni (su 7,8 milioni di attivazioni complessive). L’incidenza è quindi passata dal 9% del 2019 al 16% nel 2020 e al 26% nel 2021. Tra il 2019 e il 2020, seguendo la dinamica generale delle assunzioni, i rapporti agevolati, secondo le norme pre-esistenti, presentavano una variazione negativa; includendo, invece, le nuove agevolazioni introdotte, nell’insieme dei rapporti incentivati nel 2020 rispetto al 2019 risultava una crescita complessiva del 31%. Le leggi di bilancio successive, compresa l’ultima, hanno individuato ulteriori platee dove incentivare le assunzioni. Dopo tante insistenze e dopo che il tema non è più soltanto quello del lavoro che manca, ma dei lavoratori che non si trovano; dopo aver scoperto che è questa la principale emergenza (che poggia sulla crisi demografica e sull’inadeguatezza dei sistemi formativi); che è talmente clamoroso il mismatch tra domanda e offerta di lavoro da recare pregiudizio alle stesse prospettive di crescita del Paese e di utilizzo delle risorse del PNRR, i talk show cominciano ad invitare qualche imprenditore che lamenta di non trovare manodopera al punto di dover chiudere delle attività. La prima domanda che viene rivolta a questo datore riguarda quanto è disposto a pagare gli eventuali assunti. Se l’intervistato risponde che si adeguerebbe a quanto previsto dai contratti collettivi viene preso subito in contropiede con l’affermazione saputella degli ospiti in studio che i salari sono bassi. E non c’è verso di allargare lo sguardo.
L’Istat di recente ha fornito i dati dell’occupazione a dicembre 2022 e quelli riferiti a tutto lo scorso anno. Riassumiamo di seguito la consueta sintesi effettuata, per Adapt, da Francesco Seghezzi. In tutto l’anno trascorso gli occupati sono cresciuti di 334 mila unità. Nel 2022 i disoccupati sono diminuiti di 242 mila unità mentre gli inattivi di 225 mila unità. In tutto il 2022 (a proposito della ‘’precarietà dilagante’’) sono cresciuti di 270 mila unità gli occupati a tempo indeterminato e diminuiti di 30 mila quelli a termine. Sempre nell’anno scorso il tasso di occupazione è cresciuto di 1,4 punti per gli under 25, di 1,8 tra i 25 e i 34 anni, di 0,7 tra i 35 e i 49 e di 1,2 tra i 50 e i 64. Depurati dalla componente demografica i dati mostrano una crescita degli occupati under 35 marcata (+3,6) seguiti dagli over 50. La demografia ha un peso sempre più crescente sul mercato del lavoro: nel 2022 la popolazione in età da lavoro (data dalla somma forze lavoro + inattivi) è diminuita di 133 mila unità. Negli ultimi 5 anni la popolazione in età da lavoro (15-64 anni) è diminuita di 756 mila persone. In molte realtà – nonostante tutto – si sta verificando la profezia di Pietro Ichino: ovvero sono i lavoratori a scegliersi il padrone, perché è questa possibilità che spiega il boom di dimissioni volontarie che ammontano ad un numero di ben tre volte superiore di quello dei licenziamenti. Ma i sindacati continuano a raccontare storie di un modo del lavoro che esiste solo nella loro ideologia; e ad occuparsi di pensioni.
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